martedì 12 dicembre 2017

NUTRIZIONE O NUTRIZIONISMO

NUTRIZIONE O NUTRIZIONISMO?
   Parlare di nutrizione significa, anzitutto, narrare dell’uomo, dalla sua crescita e delle personali e intrinseche relazioni, in quanto non può esistere un’attività umana che non tenga presente del cibo o bevande, delle relative modalità e tempi di preparazione, somministrazione e assunzione.
Quando si enunciano dei gusti o scegliamo un cibo anziché un altro, stiamo comunicando una personale visione del mondo come lo gradiremmo, ma soprattutto di come lo stiamo vivendo: in altre parole, il cibo è parte attiva del nostro vivere sociale. Il desinare tutti insieme è stata, probabilmente, la primordiale forma di socialità che l’uomo abbia attuato nel percorso evolutivo, del resto, anche in molti mammiferi si può osservare il medesimo comportamento.
   Attualmente, e sempre maggiormente, è presente un uso non alimentare del cibo, cioè un esercizio che lo si può definire “simbolico”. Ecco utilizzare il cibo per migliorare il proprio aspetto, acquistare forza fisica, dimagrire o ingrassare, per cui l’atto di mangiare è l’obiettivo a sé stante e quindi scorretto: è l’inopportuno strumento per sentirsi più o meno in sintonia con se stesso e con la comunità in cui si vive.
Innumerevoli volte il cibo ricopre significati particolari secondo il personale stato d’animo di ognuno di noi.
Sono noti alcuni alimenti specifici che si mangiano per provare euforia o placare stati d’ansia.
- I cibi, ma soprattutto le bevande vietate ai bambini quali vino, birra, super alcolici e il caffè, da sempre hanno rappresentato nella loro assunzione, un momento di forza e coraggio, particolarmente quando sono consumati in gruppo.
- La cioccolata e i dolci in genere, si assumono quando sentiamo il bisogno di essere consolati o coccolati o addirittura a seguito di una delusione subita.
- Il latte, fondamentale ruolo di alimento-sicurezza e rassicurazione, in quanto il primo alimento che nascendo, ne siamo entrati in contatto.
Tutto questo pone in evidenza il cibo nella sua funzione sociale, per cui esistono alimenti gradevoli da mangiare, ma anche buoni per sentirsi ottimamente con gli altri e con se stessi.
E’ risaputo che la bocca è il primo e indispensabile “strumento” per la conoscenza del mondo, in quanto il primo atto che ognuno di noi ha compiuto, uscendo dal protettivo grembo materno, è stato quello di cercare subito e disperatamente, cibo e rassicurazione: l’allattamento al seno ha rappresentato il primario strumento per la conoscenza del mondo. Successivamente, anche il portare alla bocca qualunque oggetto che ci capitava a tiro, è stato il mezzo istintivo e forte per metterci in “relazione” col mondo che ci circondava.
Anche quando da neonati eravamo insoddisfatti per un qualcosa che o non ci veniva dato o non piaceva, il gesto spontaneo delle mamme è sempre stato quello di soddisfarci e tranquillizzarci con l’allattamento: da questo attimo magico, tutto il mondo intorno a noi diveniva paradisiaco e in equilibrio con noi stessi in quanto tutto si placava e la sensazione di sazietà era perfetta!
Se ne deduce che la bocca è il sito in cui si celebra l’unione del mangiare col parlare, per cui ciò che passa attraverso la bocca stessa sono sensazioni (piacere), sazietà (completezza) e la parola (conoscenza).
Ma il cibo, e tutto ciò che lo circonda nell’ambito dell’alimentazione, ci permette di comprendere che è un vivo e basilare monito nei rapporti familiari, poiché è in tale cerchia domestica che si apprendono le innumerevoli modalità di nutrirsi e al modo di assunzione del cibo stesso che si inizia un dialogo e a creare specifici rapporti col mondo che ci circonda: l’accettare o rifiutare un cibo ci permette di comprendere, inequivocabilmente, che si vuole comunicare qualcosa.
   Il periodo adolescenziale pone in risalto la capacità di rifiutare totalmente il cibo o, nel peggior dei casi, assumerne grandi quantità, può divenire una circostanza particolare di eccesso emotivo in risposta a situazioni di stress vissuto o di ansia percepita all’interno del nucleo familiare. In individui introversi e chiusi con se stessi, facilita l’impossibilità di “usare” la bocca onde poter esprimere con la parola i propri conflitti interiori con i genitori o coetanei, per cui può condurre a usare la bocca stessa per esprimere tramite il cibo tale incapacità comunicativa.
Le gravissime conseguenze a cui tali comportamenti possono portare, oggigiorno sono sotto gli occhi del cosiddetto mondo moderno e sviluppato: obesità e bulimia, per quanto concerne l’ingerimento smodato e incontrollabile di cibo con successivo vomito auto-controllato, e l’anoressia, situazione diametralmente opposta, cioè il sistematico rifiuto del cibo, che oggi sono delle gravissime patologie in costante aumento particolarmente, appunto, durante il periodo adolescenziale, perciò sono facilmente preda di ciò se non seguiti e controllati con estrema attenzione da parte della famiglia. Purtroppo, sempre maggiormente, si assiste a un modello estremamente permissivo, e remissivo, da parte delle famiglie stesse nei confronti dell’educazione alimentare dei propri figli. A tale riguardo, non sono di assoluto aiuto, anzi, completamente negativi, i media che ci bombardano con inusitata pubblicità di modelli e stili di vita in cui il cibo è dato troppo rapidamente a scapito dello spazio della convivialità e conversazione, a favore di un’ossessiva rappresentazione di modelli di estrema magrezza femminile e di maschietti troppo palestrati e perché no … anche un po’ tonti!!
   In ogni dove sentiamo parlare e ne siamo costantemente ossessionati dai mass-media che divulgano diete e “miracolosi” regimi alimentari, di calorie e di impeccabile forma fisica, ma soprattutto di prodotti dietetici, poiché nel nostro paese sono spesi milioni di euro per l’acquisto di questi elisir di lunga vita, che si possono definire “scorciatoie” per un ipotetico e ottimale risultato: per chi li utilizza, non sempre, ma certamente grandi interessi per chi li produce e diffonde.
La comunicazione che il consumatore riceve con il prodotto dietetico è un’ipotetica certezza in cui bellezza, forma fisica, vigore ed eterna salute, sono legate a clausole restrittive quali “Ti devi conformare a questa società in cui è l’estetica a farla da padrone, per cui se non ti adeguerai sarai immancabilmente escluso e considerato un reietto”.
Da ciò se ne deduce che forma fisica e il piacere gustativo del cibo diventano immancabilmente inconciliabili, il piacere diventa illecito e ogni volta che si mangia si è presi dall’angoscia di fare qualcosa di sbagliato per se stessi.
Ma allora, come possiamo diventare degli accorti consumatori capaci di alimentarci correttamente?
In pratica, possono esserci tre punti fondamentali che ci vengono in aiuto:
- 1 - Individuare il personale e corretto profilo alimentare a seconda l’attività svolta, età e di eventuali alterazioni del metabolismo e patologie;
- 2 - Assumere gli alimenti, cioè mangiare con un appetito “fisico” e non “psichico”: il digiunare o il mangiare con ingordigia sono inequivocabili segnali di squilibrio comportamentale da evitare assolutamente;
- 3 - Valutare sempre attentamente i messaggi pubblicitari, in quanto non sempre ciò che è ottimo per il palato fa bene alla salute in considerazione del proliferarsi sempre più di intolleranze e allergie.

   Si può concludere affermando che l’alimentazione è un processo fortemente educativo che consente la conoscenza di sé, degli altri e del mondo che ci circonda. Una persona che si nutre e alimenta correttamente sapendo ciò che gli può essere utile o dannoso, è decisamente un individuo che vive in armonia la propria vita, in quanto ha pienamente compreso che l’alimentazione deve essere vista e considerata come valori per la crescita complessiva di sé e non solo come riempimento della ”pancia”.

lunedì 13 novembre 2017

TESTIMONIANZE DAL PASSATO DELLA CIVILTA' CONTADINA DELL'APPENNINO TOSCO-EMILIANO

TESTIMONIANZE DAL PASSATO DELLA CIVILTÀ CONTADINA NELL’APPENNINO
TOSCO-EMILIANO
   A causa delle scarse infrastrutture e della tipologia stessa del territorio, l’appennino Tosco-Emiliano ha conservato più a lungo rispetto di altre zone, alcune caratteristiche tipiche della cosiddetta civiltà contadina, una situazione sociale, economica e culturale che riporta alla mente condizioni di vita che già nel 1950 in tanti luoghi avevano dimenticato ed abandonato a favore di usi e costumi più moderni, favoriti soprattutto da tecnologia e consumismo.
Gli abitanti di queste aspre ed a volte inospitali montagne, isolati e con scarsi mezzi di comunicazione, hanno preservato stili di vita più poveri e con valori decisamente diversi rispetto alle zone più industrializzate.
Nella zona di Pian del Voglio, prime propaggini dell’appennino, su cui verte la presente stesura, molte terre appartenevano alla famiglia nobiliare dei Conti Ranuzzi De’ Bianchi, possedimenti che erano gestiti da fattori e coltivati da intere famiglie di contadini e mezzadri, in base a contratti agrari tipicamente feudale e speculativi. Altri terreni appartenevano a famiglie, i primi imprenditori, che erano riusciti faticosamente ad acquistarli dai Conti.
   L’economia del periodo, secondo dopoguerra fino alla fine degli ’50, quando i lavori di costruzione dell’autostrada A1 hanno portato sostanziali cambiamenti nell’economia e nella vita di tutti i giorni nell’ambito locale, era prevalentemente agricolo. Il commercio era decisamente scarso, il denaro contante non era abbondante e ne comune mentre il poco che c’era serviva per pagare le tasse: le famiglie e le comunità cercavano di essere autosufficienti utilizzando maggiormente le modalità dei baratti che avvenivano con i prodotti della terra, in quanto beni di sopravvivenza.
   L’economia della famiglia, o meglio, la sua sopravvivenza, era basata su ciò che si riusciva a produrre. La principale fonte di sostentamento era il bestiame, in quanto forniva carne e latte: la quantità di capi bovini presenti nella stalla, rifletteva il “benestare” dei proprietari. Le terre dovevano essere coltivate in funzione degli animali, poiché solo una minima parte del raccolto era destinata al consumo umano. Gli animali potevano lavorare nei campi alleviando così le fatiche di un’agricoltura esclusivamente manuale. I buoi erano simbolo di grande ricchezza, poiché lavoravano, ma non rendevano in termini di alimentazione, mentre gli asini, che erano alla portata di pochi privilegiati, risparmiavano le fatiche del trasporto dei cereali e della farina da casa al mulino e viceversa, compito prettamente femminile; i rari cavalli, simbolo del potere e nobiltà, erano utilizzati esclusivamente dal fattore quando passava a controllare le terre e l’operato dei mezzadri.
Le uova, conservate scrupolosamente durante l’inverno quando le galline smettevano di produrle, erano una preziosa risorta, come le galline stesse che venivano uccise solo in occasioni speciali, a esempio, dopo un parto, per rimettere in forza la puerpera.
Il rispetto dell’ambiente era prioritario e assoluto: la terra era l’unica fonte di sostentamento, in quanto forniva tutto il necessario come cibo, calore, casa, vestiti, e pertanto andava tenuta in grande considerazione, rispetto e trattata con tutte le cure possibili.
   Si è portati a pensare che tale tipo di economia alquanto “chiusa” e la relativa vita frugale e travagliata che ne derivava, abbia immancabilmente indirizzato le persone ad una situazione di chiusura, di reciproca diffidenza e di invidia: in effetti non è stato assolutamente così, anzi! Proprio in questi periodi di scarsa ricchezza, di immani fatiche, alcuni valori fondamentali della vita quali la famiglia, l’amicizia, la solidarietà ed il reciproco rispetto, hanno trovato la massima espressione nell’aiutarsi e condividere quel poco che si aveva. Le famiglie e le comunità lavoravano insieme e si aiutavano vicendevolmente, sia nel lavoro che nella vita di tutti i giorni. I momenti del raccolto erano attimi di aggregazione sociale, in quanto si lavorava volentieri e si stava in compagnia. Quando si “spannocchiava” il granturco era una festa collettiva con musica, canti, balli e racconti. Se una donna era a lavorare nei campi e il neonato a casa doveva essere allattato e accudito, poteva rivolgersi a una vicina. Se c’era necessità di mano d’opera per una qualunque riparazione, tutti gli uomini erano disponibili: poiché non vi erano grandi possibilità e vie di comunicazione, ma proprio perché la strada era una sola, tutto ciò che avveniva era sotto gli occhi di tutti che quando passava il dottore, si sapeva che qualcuno stava male e, peggio ancora, se passava il prete, qualcuno stava morendo! Vi era una grande vicinanza delle persone e una partecipazione comune e tanta, tanta compassione.
   Valori, questi, che nella società attuale dopo appena cinquant’anni, non sono più all’ordine del giorno, in una cultura che privilegia l’individuo e non facilita l’aggregazione, ma favorisce la forma rispetto alla sostanza, dove la ricchezza viene idolatrata ed il consumismo regna sovrano.
Personalmente, trovo difficile immedesimarmi in questo stile di vita passato, che è lontano dal vivere mio e dei miei coetanei, eppure si parla solo di qualche decennio fa, uno spaccato di vita vissuto dalle precedenti generazioni. Mi pare incredibile il guardare indietro nei tempi e vedere come sia cambiato il mondo in pochi anni, quante situazioni siano state dimenticate o vadano irrimediabilmente perdute. Di tutto ciò posso comprendere l’importanza delle testimonianze, la storia “viva”, “reale”, un pezzo di vita che ci ha condotti fino qui.
Ho cercato di raccogliere quante più testimonianze locali per conservare un pezzetto di storia che, personalmente, sento particolarmente vicino: testimonianze dirette di persone che hanno vissuto la storia di questi luoghi e che l’hanno tramandata.
Sono irrilevanti alcuni aneddoti, a volte divertenti e a volte malinconici, che fanno ridere o piangere, ma stupiscono sempre in quanto sono momenti vissuti.

   Mi rincresce accorgermi che le ultime generazioni non prestino alcuna attenzione al passato, alle testimonianze e all’esperienza che immancabilmente si riceve dai nostri predecessori, soprattutto quando il loro vissuto è ancora così vicino a noi: ebbene, questi valori non possono essere tramandati come semplici notizie, vanno vissuti e un giorno diventeranno storia …

domenica 20 agosto 2017

ONORA IL PADRE E LA MADRE CON ZEST

Onora il padre e la madre con Zest
   Il trovatore Donato Loscalzo nella poesia “Magnagrecia” racchiude in modo esemplare in uno sguardo lirico il Metaponto e il senso delle radici.
Ho imparato a perdermi negli anni
tra i balzi del Pollino verso il mare
un vortice di monti e foreste che si aprono alla terrazza di Ponente
il sole che mi cerca e io cerco
tra ombrosi precipizi di caverne
ha il sapore delle olive del grano
delle propaggini del giorno
che scalano le pietre ancora vive.
Proprio qui il mare è una scommessa:
la lingua dei greci, l' approdo di conquiste
i fuochi di Bisanzio
le pietre lavorare dai Borbone, respiro ancora la bellezza del mattino
nel dissolversi mistico dei numeri,
e il teorema ancora non risolve il destino dell'anima mortale
qui mi perdo confuso nei tramonti
perché la linea d'orizzonti
ora indovino tra cielo e mare o indistinti nell' abbraccio
e apro così il mio balcone
pronto a regalare a questa terra
che silente ancora mi accompagna
la certezza di riavermi ancora nuovo.
   Credo non si possa esprimere meglio il sentimento di amore per questa terra, la sua nobile e antica origine, il sapore diverso, “ … un vortice di monti e foreste / … / tra ombrosi precipizi di caverne …”. È difficile “onorare il padre e la madre” e le proprie radici fino a provarne il senso profondo, a farne quasi un sapore in bocca, uno sguardo che sa coniugare ieri e oggi come ha fatto il poeta che trova, anzi, una spinta dal passato, per avere la certezza di tornare a farsi sempre nuovo pur rinnovando un patto di appartenenza.
   Accade di pensare a tutto questo ascoltando i commenti dei giovani fuori da una piccola ferrovia silenziosa e quasi abbandonata nei suoi quattro binari. Viene paragonata con violenza e sdegno alle magnifiche stazioni delle grandi città e mentre sembra che perda, quella stazione vince nel paragone, vince non solo nella prepotenza dei giovani, vince e basta! Vince perché da stazioni così sono partiti le madri e i padri di quei ragazzi della grande città, vince perché in quel silenzio ferroviario c' è l'onestà di un viaggio che è stato e che torna a essere, vince perché nelle ferrovie fattesi silenzio a Parigi e a Firenze ora si fa cultura, si fa museo di un passato che è glorioso solo quando il presente è ancora onorevole, proprio come dice il poeta Loscalzo con quel “ … uomo nuovo … ” degno di leggere il passato bizantino e borbonico della pietra. Eppure, davanti a quella piccola e silenziosa stazioncina dei giovani usciti dall'alberghiero di Potenza nel 2006, danno la risposta giusta e piena di consapevolezza al saper “onorare il padre e la madre” attraverso “il sapore delle olive, del grano” e lo fanno con gusto. “Zest”, gusto, infatti il nome del locale che è un impegno con i clienti e un patto con i fornitori.
Ci dice Michelangelo Ranauda, che con la fidanzata Rossella in sala e Luciano Cerone con lui in cucina, mandano avanti il locale inaugurato il 22 dicembre scorso, che tutto è a km Ø e che personalmente conosce i piccoli fornitori locali quando non produce personalmente nell’azienda di famiglia. Al “sapore delle olive, del grano” aggiunge quelle dell'orto e del sole, del lievito di birra e delle 48 h di lievitazione, quello dei pomodori locali e non trattati, i sott’olio di monte Scaglioso, i latticini e podolica di Ruoti-Baragiano-Tito, i cardoncelli di Bella, la biopasta fresca di Tito e lo zafferano locale. Secondo la tradizione aviglianese, offre un'ottima verticale di eccellente baccalà e le carni sono di piccole produzioni attente all'alimentazione a fieno dei capi con una resa di qualità. Le birre non filtrate sono artigianali del Vulture: Rocco Roll, Bramea, Gnostr, Bianchina, West Cost, Gaddina Young, So' Biologa, ottime davvero e fanno simpatia già nella scelta del nome in etichetta che non rinnega le origini, anzi. “ onorano il padre e la madre” pur facendosi “uomo nuovo”.
Così accade per i nomi scelti per le pizze in listino oltre quelle tradizionali: A Ruotese, A' Castelgrande, A' Pescopagano, A' Satriano, A' Metaponto, … tutti nomi e “condimenti” dei paesi vicini. Non manca una pizza dedicata proprio a quella silenziosa stazione: A' Stazion, che non è francese ma orgogliosamente Lucano!: pomodoro, mozzarella, cardoncelli, olive, € 5 e un sorriso!
C'è chi dice sia una trovata un po' “ruffiana” per conquistare tutti ; se così fosse, sarebbe un grande rischio, perché un gioco finisce sempre prima o poi. Questo, invece, è un patto, un impegno col cliente di Ruoti, di Avigliano, del Metaponto, di Bella. Lucano, non solo per il turista già educato a km Ø, ma col locale silenzioso come la stazione pronto a farsi cultura enogastronomica insieme a Michelangelo e alla sua brigata che hanno non solo trovato se stessi “ onorando il padre e la madre”, ma creato se stessi … , G. B. Shaw.  Hanno messo gusto anche nel locale, piccolo e grazioso, aperto sei giorni a settimana, pranzo e cena, registrando full.
I prezzi sono onesti da invitarti a tornarci e così genuini i piatti da desiderarlo di farlo spesso.
   Tornando al commento dei giovani sempre connessi che parlano poco e spesso a sproposito, direi che si perdono molto, il Zest, appunto, il gusto e non solo della stazioncina e dei sapori di cui loro stessi sono impastati, ma molto di più. Una psicologa americana ha scritto “iGen”, un libro per denunciare gli effetti gravi sulla personalità degli adolescenti a causa dell'uso continuo e smodato del cellulare. Ma questa è un'altra storia, a noi piace pensarla ancora come Marguerite Yourcenar nelle “Memorie di Adriano”: “ … chi ama il bello finisce per trovarne, ovunque come un filone d'oro ... “

di Lorella Rotondi

venerdì 11 agosto 2017

NON DI SOLO PANE ...

Non di solo pane …
   Vivere la Lucania e non di Lucania o in Lucania, consente uno sguardo aperto e , forse, un po' lirico su una regione italiana bellissima e poco conosciuta. Non solo è poco conosciuta, è confusa addirittura con altre regioni quali Campania, Puglia, Calabria. I confini lucani sono con quelle regioni e ne condividono alcuni destini, ma non tutti, quando i confini non sono due mari su cui affaccia.
I destini che condivide, stanno, ad esempio, nel razionamento di acqua che da sempre la Basilicata manda in Puglia. Una regione ricchissima di acqua “ deve” concederla in Puglia e i cittadini approvvigionano i serbatoi dalle 6:00 alle 10:00 del mattino. Quest' anno ipotizzare questo per Roma, non il Lazio, Roma! Ha fatto gridare allo scandalo! Roma no! L' intera Basilicata sì e da sempre. Condivide con la Campania la “terra dei fuochi”, ma qui non se ne parla, anzi! Grandi distributori vantano “prodotto in Lucania” “evitando” Campania proprio per disinformazione degli acquirenti che non sanno del gran male prodotto dalle trivellazioni col carico di contaminazioni nelle falde acquifere, la diffusione cancerogena a seguito delle attività estrattive. Qui si baratta la salute col lavoro proprio come a Taranto.
   Altro destino comune con le regioni con cui confina è la negligenza verso gioventù persa e dispersa, non stimolata, a rimanere. Dovrebbero contenere la “desertificazione” dei borghi storici, concedendo, a titolo gratuito, case ai giovani disposti a rimanere a viverci. Il loro lavoro andrebbe favorito con formazione e fondi, progetti cooperativi ed europei, andrebbero sostenuti a restare sul territorio e andrebbero educati alla custodia dei saperi e sapori genuini, quelli che pensiamo qui, ma che proprio qui stanno scomparendo. O si fa così e rapidamente, o presto fra i 1730 paesi circa che “scompariranno” in Italia entro il 2030, (cfr A. Caporale “ Acqua da tutte le parti”), molti saranno lucani; casa e lavoro, dunque, a chi resta! Ma così ancora non è.
   Abbiamo conosciuto Katia e Marco, una giovane e bella coppia, che hanno avviato una piccola impresa familiare di arte bianca, benché lei sia stata brillante studentessa di biologia molecolare a Pisa e lui sia geometra “con timbro”. Trovare “colti” panettieri non è cosa rara; abbiamo già conosciuto ingegneri milanesi diventati allevatori in Toscana, fotografi di chiara fama che aprono fattorie biologiche, cantanti stranieri che si fanno “vignaiuoli” in Italia. Sono queste scelte di vita,conversioni filosofiche. Il punto è che Katia e Marco non hanno avuto scelta. Questo rende meno democratico un paese che si dichiara democratico. Katia e Marco, a nostro giudizio, sfornano i migliori biscotti al farro del paese e il loro pane esclusivamente a legna e pasta madre, è altamente digeribile, gustoso, curato nella scelta della farina, nella lievitazione e nella cottura. Chi ha insegnato loro tutto questo? Chi ha improntato i capitali per la loro piccola impresa artigianale?  Nessuno! Una regione che ha così pochi abitanti e non riesce a prendersene cura scandalizza davvero. E’ necessario organizzare corsi professionalizzanti a ciclo continuo articolati, nel caso di Marco e Katia, dalla panificazione al marketing, dalla comunicazione alla messa in rete con i produttori biologici a filiera corta, sino alla progettualità con le scuole per un' ducazione ai sapori e tradizioni del territorio. La regione Basilicata dovrebbe inserirsi, anche attraverso Katia e Marco, nelle virtuose realtà slow-food e dovrebbe promuovere ogni singolo borgo lucano a fini turistici cui potrebbero rispondere persone interessate alla montagna come al lago o al mare o alla collina, senza dimenticare i siti archeologici, il passato greco e duino, nonché federiciano del territorio. Altrimenti penso che questa regione non si meriti ragazzi così bravi, miti, onesti, capacissimi nel loro lavoro. Ho visto quaderni zeppi di appunti con tempi di lievitazione e tempi di infornata; sembravano quelli di una puerpera che segue le prime poppate del bimbo per accertarsi della sua salute e crescita. Ecco, se la Lucania imparasse da Katia e Marco a tenere un virtuoso quadernino in cui si accerta premurosamente della crescita e salute dei suoi giovani, farebbe la cosa giusta. Farebbe la cosa giusta a fare dei bandi per fornire attrezzature all’avanguardia a queste giovani imprese perché il lavoro è fatica, ma di lavoro si deve poter vivere e non morire schiacciati dai pensieri dei mutui.
Che politici sono quelli che crescono figli poi chiedono loro un eterno destino di migranti oppure di restare, rischiando del proprio?
Dopo il film “Basilicata coast-to-coast”, questa regione è sparita di nuovo; sicché non resta la menzione ai telegiornali quando Renzi e Boschi si recarono a Potenza a riferire riguardo a un “piccolo scandalo” di partito. Il cagliaritano sta proponendo invece realtà all'avanguardia; una tra queste è “l’orto al bar” su lettiere a vista ricavate dalla lana, ad esempio. Perché non in Basilicata? Non manca la lana e non mancano né la cultura né la capacità-passione, come quella di Katia e Marco, tese come un filo tra tradizione e innovazione.
Manca una regione e mancano dei politici che abbiano davvero a cuore questa terra che siano stanchi di violarla e desiderosi di arricchirla, popolarla, lasciarla visitare attraverso una viabilità sicura e moderna.
   Matera capitale della cultura è anche a Bella, al forno di Katia e Marco dalle 4:00 del mattino alle 20:00 di sera quando donano il pane vecchio agli animali stremati dalla siccità. Hanno già dato di più questi ragazzi a questa terra di quanto più questa terra abbia dato loro, hanno già fatto cultura e politica migliori di quanta ne abbiano intorno.

di Lorella Rotondi

mercoledì 12 luglio 2017

NON SIAMO TUTTI UGUALI, MA NEMMENO DIVERSI ...

Non siamo tutti uguali, ma nemmeno diversi
   L'originalità era un tempo trasgressione: oggi, la trasgressione è l'ordinaria follia del quotidiano?
Ci guardiamo bene dal rispondere la normalità, per non aprire l'annosa e sinceramente noiosa querelle su “cosa è normale?” e diremo che si può ancora trovare l'originalità in brevi sacche di cultura indigena in ogni parte d' Italia rimasta abbastanza isolata o, auto-isolatasi abbastanza. “Abbastanza” è atto dovuto come considerazione logico-deduttiva da ciò che si mostra sotto i nostri occhi: il cellulare in mano all'ottantenne, e oltre, che conversa con un giovane imprenditore di agency that sells services in tuta e che ti parla di Tokio o Berlino o di Milano come avesse visitato queste città solo poche ore prima e azzera i tuoi ricordi dieci anni prima o solo di un mese prima.
“Isolati” è necessario per rimanere originali: modi di dire, di fare, di cucinare che non sono televisivi né massificati dalla divulgazione a ripetizione. Anche quando ti insegnano ad essere diversi poi ti rendono tutti uguali! Ma con personaggi così, usciti dalle isole culturali, c'è da divertirsi, imparare, ricordare fra un pizzico di nostalgia e uno di simpatia.
   Basta poco per accorgersi del DOC che respiri in alcune di queste “isole”: aria, acqua, calma, curiosità, capacità di guardare e inquadrare l'altro da quel che dice e da quel che fa, meglio di un dirigente alle Risorse Umane. DOC e BIO sono, poi, i prodotti che usano a tavola: vino senza trattamenti, pomodori sani, patate non trattate e così il resto dell'orto e della frutta. Qualcosa di questi prodotti viene venduto, il poco in esubero, accanto a farro, cicerchia, lenticchia, olio, della carne a filiera cortissima e insaccati famosissimi. Sto parlando di gente laboriosa colpita da uno, due, tre terremoti. Siamo nella Valle del Menotre. Chi conosce questa valle fra gli appennini umbro-marchigiani? Pochi che magari conoscono mete esotiche comprate nei pacchetti con sconti straordinari nella stagione delle piogge e che tornano, anche da lì, come diceva mia nonna “ … casson s'è andà, baul s'è tornà  … ” , cassone è andato, baule è tornato. Ecco, la Valle del Menotre e le altre numerose isole culturali di cui parliamo, non sono per questi turisti. Queste terre sono per viaggiatori in quanto necessitano cultura e cuore per fare dei veri viaggi: ci vuole tempo sano e libero, oltre alla pazienza e curiosità dell'incontro. Tutto questo nei “ pacchetti” non è richiesto e pure quando hai raggiunto la catatonia c'è un solerte animatore, destinato a diventare Fiorello o Premier che, appunto, ti anima e ti diverte per forza, come se il divertimento fosse un atto passivo. Qui ti diverti perché la battuta è autentica e ti colpisce all'improvviso come una schioppettata, che tu sia un dirigente o un ragioniere che si trova alla stazione di posta di Ponte Santa Lucia. E mentre te la ridi col filosofo che è stato commercialista a Milano o col ragazzo in tuta che gira il mondo coi suoi cinque computer in camera e organizza video conferenze commerciali tra imprenditori di ogni angolo del mondo e offre traduzione simultanea capace di concludere affari a diversi zeri, o col posatore fichissimo che spesso è su AD e che vive nella casetta di legno, ti arriva il profumo della porchetta di Claudio, o del panino col ciauscolo dei ragazzi rientrati dall'escursione col QUAD, o in bike, o a cavallo, o dal rafting, o dal trekking o i signori usciti presto per la cerca del tartufo. Il rito del panino con il rito del racconto.
   Quello che hai fatto diventa importante per tutti: chi è stato alle cascate, chi nel bosco, chi nel convento a 650 metri scavato tutto nella roccia oggi deserto di eremiti, perché non c'è fede o perché non c'è campo? Perché c'è fede solo nel campo, mi sentirei di dire, insomma tutti hanno bisogno di condividere e il filosofo fa notare senza alcuna supponenza particolari che loro, con le gambe buone, hanno appena guardato senza vedere, e lo ringraziano perché l'escursione si arricchisce nella condivisione. Mancano però la spa con trattamenti, sauna e un buon relax dopo le fatiche così ben pubblicizzate invece nei pacchetti di mete esotiche? No davvero. Accanto alla stazione di posta è possibile anche avere questo. Come si diceva prima, è un'Italia rimasta isolata solo abbastanza. Poco oltre invece, Casenove, Colfiorito, Camerino o Norcia diventa terra per i volontari e di tipicità acquistate per sostenere queste terre massacrate dal terremoto e pazienti ed educati cittadini italiani chiedono cortesemente di non essere dimenticati. Ma come fanno a dimenticarli se non li hanno mai conosciuti? Chi conosce Montefortino, il lago di Pilato, Montemonaco, Amandola, chi sa essere ancora se non un volontario, almeno un viaggiatore, un viaggiatore enogastronomico, uno che non confonde Marche e Abruzzo, uno capace di parlare e ascoltare e dare e ricevere tempo? Questa bulimia di spostarsi nasconde un'incapacità culturale e umana davvero seria. A volte si sta col filosofo in silenzio per ore, perché si è imparata la lezione di Josè Saramago, ne abbiamo avuto la capacità e il tempo per farlo, secondo il quale “ … è questo il difetto delle parole. Stabiliamo che non c’è altro mezzo d’intenderci e di spiegarci e finiamo con lo scoprire che restiamo a metà della spiegazione e così lontani dal comprenderci che sarebbe stato molto meglio lasciare agli occhi e al gesto il loro peso di silenzio … “
   Impariamo la libertà da chi semina cultura. Impariamo a tornare noi stessi e a conoscere davvero qualcosa e qualcuno, a ri-conoscere i sapori, quello dell'acqua ad esempio, che custodisce il segreto del buon pane e del buon caffè. L'acqua è un bene prezioso, ogni angolo d'Italia aveva la sua acqua miracolosa intorno al mille e ci insegnano a non barattarla con niente, perché niente è più prezioso in quanto è la vita stessa.
   Impariamo a non essere sotto ricatto da un immanentismo aggressivo, sterile ed egoista. Impegniamoci a lasciare pulito e sano a chi verrà e a educare l'uomo viaggiatore che sa vedere, ricordare, rispettare, capire davvero il gusto di essere per sé e l’altrui essere umano.

di Lorella Rotondi

domenica 18 giugno 2017

METTI UNA SERA A CENA ...

Metti una sera a cena ... con degustazione e anniversario di matrimonio
   Le cesane mi erano note attraverso la poesia di Umberto Piersanti. Sono il luogo, per me, dove le colline si spogliano e mostrano l'anima da cui escono i versi del grande poeta di Urbino. Ma se lasciamo le Marche, le cesane laziali si incontrano col loro passato vulcanico e cambiano nutrimento arricchendosi di componenti forti, ferrosi, che caratterizzano la poesia del vino che si produce nei cinque comuni del cesanese del piglio: Anagni, Acuto, Piglio , Paliano e Serrone nell’alta valle del Sacco. Siamo, dunque, nell'angolo più settentrionale della Ciociaria, tra le province di Roma e di Frosinone.
   Il cesanese è uno dei numerosi vitigni autoctoni del Lazio e richiede un'esperienza specifica sia per la coltivazione che per la vinificazione. Nel 1973 il cesanese del piglio ottiene il riconoscimento DOC e nel luglio 2008 è stato ufficialmente riconosciuto come DOCG.
Daniele De Ventura è un ambasciatore di questo vino e lo è di tutto rispetto non solo perché cugino dell'ottavo Re di Roma, Francesco Totti, condividono lo stesso nonno materno, ma perché Daniele è l'ideatore del noto Simposio che ogni anno si tiene a Roma in zona EUR, e che tanto ha fatto e fa per i viticoltori laziali e per i prodotti di altissima qualità italiana.
A Palazzo Rospigliosi Zagarolo, dunque, in ottobre si possono seguire i percorsi del Simposio, dove trovano vetrina e messa in dialogo le migliori aziende italiane dal vino all'olio, alla mortadella, riso, pasta: in altre parole … l'Italia della buona tavola! Niente di industriale e di produzione quantitativa può affiancare le scelte di Daniele che sono esclusivamente qualitative.
A Firenze, Daniele ha incontrato la maestria culinaria di Massimo che ha sposato il formaggio pecorino in tre diverse stagionature con gelatina cesanese, poi ha offerto un risotto al vino e mezzemaniche del pastificio Lagano alla gricia con caviale di cesanese, un peposo estivo a bassa temperatura al cesanese con contorno di stagione, quindi una millefoglie con cialde di biscotto, sempre al cesanese, con crema di ricotta.
Insomma, si può ben dire che il vino laziale ha incontrato l'arte della cucina toscana. Massimo e Marta, titolari dell'Osteria de L'Ortolano, si sono spostati accanto a quella che è stata la bottega d'ortolano dei genitori di Massimo sin dal 1962. Marta ha un podere a Torricella nella Valdelsa e i suoi, il sabato a Sovigliana, e il mercoledì a Empoli, ancora portano al mercato i buoni prodotti della loro fattoria.
Massimo e Marta, insieme, non solo hanno custodito il gusto per i sapori genuini e di alta qualità della terra, ma sono cresciuti in competenza enogastronomica nel tempo anche seguendo la Scuola di Arte Culinaria Cordon Bleu per diversi anni. Della vecchia bottega da ortolano all'ombra della Cupola del Brunelleschi resta l'attenzione per il prodotto e l'investimento in competenza nella selezione. E’ così che cercano le delicatezze di piccoli artigiani di mostarde, conserve, pastifici, produttori di riso, olio locale, vini nazionali di buono e ottimo livello. Sono loro stessi, invece, a produrre biscotti e dolci, oltre a qualche altra prelibatezza gastronomica. Massimo crea particolarità che decorano e danno sapore personale ai piatti, come ad esempio, la serie di caviale di succo fresco di pomodori oppure di vino. Il cliente trova questo caviale a decorazione e spezza fra i denti il piccolo ovulo da cui fuoriesce integro un sapore custodito come un gioiello. La natura qui si scrive con la lettera maiuscola, NATURA, proprio come Brunello e quando origine-identità hanno pari valore al prodotto e il valore commerciale non si dimentica, ma è subordinato alla qualità e alla salute e al buon vivere del cliente: direi che siamo in un'Osteria dal bel pensiero fiorentino dove la cultura si esprime anche a tavola secondo la migliore tradizione.
   Galeotto fu il Cesanese del Piglio per un incontro tutto toscano che è aperto ai buoni incontri come la norcineria e i prodotti caseari laziali arrivati col sorriso e la competenza di Daniele De Ventura.
   Galeotta fu la poesia delle Cesane di Urbino e l'inizio di una geografia del cuore per consolidare un'amicizia divenuta amore e che dura da anni: un anniversario di matrimonio pieno di sapori e di lieti pensieri e progetti …

di Lorella Rotondi

martedì 30 maggio 2017

SMALLHOME E LA PORCHETTA DEL DIVINO EUMEO

SmALLhome e la porchetta del divino Eumeo
   Entro l'estate del 2015 una palazzina a Santo Spirito avrebbe dovuto ospitare dieci padri separati e in difficoltà col lavoro. Il Comune di Firenze, in verità, ha potuto inaugurare i 250 metri di abitazione, fra spazi individuali e spazi comuni dove ospitare i figli nei giorni di assegnazione da parte del tribunale, solo qualche giorno fa . Al 16 maggio2015 le domande erano 30. L'Assessore al Sociale, Sara Funaro, già allora affermava che in difficoltà erano certamente di più “ … ma sappiamo che molti altri hanno timore anche solo a chiedere aiuto per paura che gli possano essere portati via i figli”.
Ci chiediamo, questi uomini che hanno “cambiato la geometria” dei loro vite, nolenti o volenti, dove si sono sistemati? Come si sono sistemati?
Questo libro, presentato a LA DISPENSA di Gregorio Parrini a Strada in Chianti, Firenze, ci dice che ci sono quattro milioni di famiglie “ monogenitoriali”, ma gli autori preferiscono parlare di smallfamilies,famiglie a geometria variabile. Il libro è dell'ottobre 2016 e nasce da un progetto-osservatorio a Milano del 2014 che intende “ orientare, informare, sostenere conoscere e tutelare i diritti dei genitori single e delle famiglie a geometria variabile, in particolare di chi vive in condizione di fragilità e isolamento”.
Il principio su cui fonda le basi l'Associazione è quello che “ … qualunque sia la sua composizione, ogni nucleo familiare ha dignità di famiglia … ”. I racconti sono di 35 adulti, l'ultimo di una donna ghanese che vive in una casa-famiglia a Roma con suo figlio di cinque anni, poi la parola degli adulti si zittisce per dare spazio a brevi pensieri dei bambini, dai 5 ai 10 anni. Risulta, per chi non lo sapesse ancora, che “I bambini ci guardano” e un noto film di De Sica ce lo dice dal 1943 e forse faremmo bene a ricordacelo più spesso, qualunque sia la nostra “geometria” sentimentale e familiare. Non dovremmo farlo per cambiare le nostre intenzioni di “geometrie”, ma per porci in ascolto e dialogo con i figli, per non attribuire loro dei “carichi”, per comprendere le loro paure e gli entusiasmi, a volte, con cui prendono questi cambiamenti radicali.
L'importante è cercare di non destabilizzarli: geometrie diverse sì, ma non in bilico, non su un punto di fragile convergenza come, ad esempio, uno spigolo di vetro . Ma la lettura di Maurizio Splendore, La pastiera in condomino, ha riportato il sorriso a tutti, lasciandoci intravvedere possibilità galeotte intorno alle bontà culinarie insieme a un capolavoro d'amore materno.
Allora è vero che l'amore, l'affetto, la sincerità sono il viatico che per primo fu dato a Ulisse rientrato a Itaca sotto mentite spoglie del soldato cretese disperso.
In altre parole, è il clima di accoglienza il solo in grado di rimarginare le ferite e a dare fiducia nella risoluzione felice per tutti: il saperci rimettere in dialogo. Continuando nel parallelismo con la figura omerica, Eumeo era sì “il divino porcaro“ di Ulisse, ma aveva pure sangue reale. Sicché la porchetta del nostro banchetto aveva le stesse “nobili” intenzioni: la gentilezza dell'accoglienza e della condivisione sorridente in una bellissima serata di primavera inoltrata.
   Tornando a Eumeo, c'è da dire che, figlio di un re siriano e con una sciagurata sorte, visse sempre felice con Laerte, Ulisse e Telemaco. Sappiamo che non ebbe né moglie né figli: fu felice forse per questo? Chissà! A ognuno la sua indole e la sua geometria, specie se nato dalla caleidoscopica mente dell'autore greco. Il porcile viene descritto con cura da Omero e forse vale la pena di ricordare questa antichissima struttura di allevamento che oggi dovrebbe essere, per qualità e ciclo naturale, un'aspirazione di molti nel settore, magari aggiungendoci il recupero delle biomasse imposto dagli accordi di Kyoto sino al 20% entro il 2020.
Si trattava di un recinto circolare, di nuovo le “geometrie” in campo! di pietre e dodici stalle di pali di legno, con seicento scrofe e trecentosessanta porci all'esterno liberi di pascolare. Tutta una serie di numeri perfetti dal significato simbolico e anche, se permettete, una gran bontà.
Inoltre, Eumeo accoglie Omero con generosità e gentilezza, provando empatia pur senza averlo riconosciuto e lo ospita “per timor di Zeus”. Ecco rivelata la forza del porcaro Eumeo: un ordine simboleggiato dai numeri perfetti che descrivono il suo allevamento e la gentile accoglienza di chi è in difficoltà per timor di Zeus sono l'emblema che egli vive in armonia con le leggi divine.
A noi, riuniti nel giardino di Gregorio, basterebbe l'osservazione delle leggi di questo mondo che parlano di dignità e di rispetto, basterebbe che i numeri, anche imperfetti e di geometrie variabili, godessero di autentica accoglienza e sostegno sociale, perché i figli sono un bene, un patrimonio di tutti noi e più questi crescono in armonia, ricordate? Il segreto di Eumeo era proprio l'armonia, più saranno giovani solidi e sicuri, creativi e costruttivi, parte integrante della storia che propone guerre diverse e anomale oggi, in una società che ha riconosciuto gli spazi giusti ai loro padri e madri e a loro contemporaneamente, perché promesse di uomini e donne che vogliamo in armonia.
   Intant,o pure il menu di Gregorio ha subito il fascino di geometrie e di richiami omerici: una straordinaria porchetta ha fatto la sua cilindrica comparsa da intera, accanto a circolari e triangolari crostini con sferiche mozzarelline di bufala su tondi pomodorini pachino, rettangolari porzioni di pizze calde innaffiate da birre artigianali o vini del Chianti. Per concludere, triangoli isoscele di ... pastiera napoletana che ci aveva accompagnato col suo profumo sin dalla lettura di Maurizio Splendore accanto agli straordinari Lilli e a Pierluigi Bacci.
AAVV, SmALLhome, a cura di Raethia Corsini e Laura Lombardi
Cinquesensieditore in Lucca, ISBN 978-88-97202-882

di Lorella Rotondi

mercoledì 24 maggio 2017

PROFUMI NELL'ARIA

Profumi nell'aria
In un giardino con Dispensa
   Accadono connubi che hanno sostanza e significato: quelli che ruotano intorno al piacere e alla bellezza sono i migliori. Secondo Freud, siamo nati con questo istinto, quello del piacere che è eros sin dal principio. E in principio il piacere, il godimento massimo per un infante è l'odore della madre di cui si percepisce prolungamento, il nutrimento che da lei proviene e il ciclo si conclude ... come sappiamo e il grande medico Ayurveda Dash, scomparso nel 2015, cui si rivolgeva anche la cantante Madonna, pare sia fondamentale. Già la scuola salernitana, comunque, recitava:
Parce mero, coenato parum: non sit tibi
 vanum
Surgere post epulas: somnum fuge
 meridianum:
Non mictum retine, nec comprime fortiter
 anum.
Haec bene si serves, tu longo tempore vives

< Non esagerare col vino, né coi cibi; non ti dispiaccia.
Alzarti in piedi dopo mangiato: evita il riposino dopo pranzo.
Non trattenere l'orina, e non tenere serrato lo sfintere.
Se seguirai con cura questi consigli vivrai a lungo.>
Scuola Medica Salernitana, Flos Medicinae Salerni, vv.4-7
   Dobbiamo confessare che dopo le letture che si svolgono il lunedì a Strada in Chianti presso la Dispensa di Gregorio Parrini, raramente riusciamo a rispettare i dettami della Scuola Medica Salernitana. Fra i profumi del gelsomino ci siamo inebriati innanzitutto dei racconti di Pierluigi Bacci, “l'Origine”. Sono quindici racconti per quindici profumi. Storie vissute e storie sognate che riportano a odori e profumi significativi, personali e che si legano a quella parte eterna, benché effimera, di ognuno di noi. Niente, infatti, come i profumi hanno il potere di evocarci carezze e presenze, assenze dolorose che restano negli odori degli abiti, nelle pagine sfiorate.
Poi ci sono i profumi dei luoghi insieme visitati, le brezze nel vento, così d'improvviso.
A Firenze lavora un grande “ naso”, così si indicano i maestri profumieri, la Signora Rossella Gatti, che ha partecipato alla serata. Ci ha fatto comprendere quanto lavoro, competenza e professionalità, ci siano dietro all'estrazione , miscelazione, combinazione di un'essenza personalizzata che parte sempre dal profumo della nostra pelle che è una cifra unica: l'essenza si combina e fa del nostro odore un profumo, non modifica il “noi” per un “altro” generico e massificato. Non è nemmeno una questione di stile, ma di personalità e forse di anima.
   Il libro di Pierluigi Bacci è un elegante cartonato tascabile, proprio come tutto ciò che di prezioso abbiamo: il giaggiolo o iris fiorentino non potevano non essere citati. Ancora oggi rifornisce i maestri profumieri in Provenza e io, che vivo tra le cipressete toscane, gli ulivi verde-argento snelli così diversi da quelli liguri o pugliesi, e distese di lavanda e giaggioli oltre i vigneti onnipresenti, mi sento privilegiata fra tanti profumi capaci di spiritualità antica quanto l'origine dell'uomo o gli etruschi che cercarono di catturare i profumi della natura nelle prime bottigliette di vetro, i colori con lo zafferano, flettere la pietra ad arco col segreto dei numeri.
E’ così rassicurante la contemplazione delle buone radici che è il segreto per andare lontano con una sobria sicurezza e dignità. Forse queste serate sono il rinnovare un'identità. Cittadini della bellezza che si raggiunge per sentieri bianchi e personali, assai poco pubblicizzati, ma confidenze di nicchia, piccole case editrici per grandi temi, piccoli produttori per grandi vini profumati che hanno accompagnato l'apericena. Niente a che fare con le grandi distribuzioni: solo insalate degli orti a filiera cortissima, fiori edibili, asparagi selvaggi e frittatine con uova dei pollai di zona e galline che razzolano a terra, olio toscano da olivi le cui chiome curiamo a ogni risveglio, salumi di animali a cinta senese che sono ritratti in così tanti affreschi da stare pure in Chiesa. E poi il pane, il pane toscano, così sciocco per ossequio ai saporiti salumi, così sano da compiacere pure l'antica scuola salernitana. Serate incantevoli che aspettano sempre gli amici: la porta aperta e l'abbraccio festoso sono sempre qui per chi ha naso, gusto e cuore, perché altrimenti la bellezza implode o si disperde.
   Il romanzo Das Parfum - Die Geschichte eines Mörders di Patrick Süskind del 1985 e poi film nel 2006, era sempre nell'aria, durante la nostra conversazione letteraria, forse perché da allora non si è potuto più fare a meno di chiederci se il profumo sia davvero l'odore dell'anima e Grenouille afferma che senza odore non esistiamo. Sicché come dire di mangiare se il nostro cibo è spinto oggi dalle nuove normative a essere senza sapore, senza odore e i formaggi si possono fare senza latte?
   Pensiamo di non esistere senza a odori e senza sapori. Pensiamo che “senza” si perda l'umanità, e umanesimo.
Ma erano solo conversazioni in giardino, fra profumi della piena primavera toscana che lascia il passo all'inizio dell'estate, a sapori di nicchia antichi quanto le nostre rose e la nostra civiltà che tolse per prima la pena di morte, 1786, grazie all'austriaco Pietro Leopoldo così amato in Toscana ancora oggi, e che non l'ha più rintrodotta mascherata. Il nostro territorio è OGM free e Comune è presidio Slow Food, le nostre vigne non utilizzano pesticidi e a ogni filare, ai piedi dell'uva, un roso col suo profumo …

Lorella Rotondi

martedì 16 maggio 2017

ALLA DISPENSA DI GREGORIO PARRINI

Alla Dispensa di Gregorio Parrini
Tasti neri e tasti bianchi
   A Strada in Chianti, Piazza Landi, poco distante dall'uscita di Firenze Sud , si trova La Dispensa. Il locale è stato recentemente ristrutturato a garbo, come si suol dire in Toscana: saletta a vista , tavoli ritmati a geometrie alterne, collezioni di mignon , di scatole di latta, di pezzi francesi di primo '900 e un clown di Cinecittà, fermo e colorato nel suo saluto immobile agli avventori nell'antibagno del locale. Enoteca ricca e varia, forno e macchina del caffè sempre accesi, affettatrice che frulla come una mietitrice a giugno, quando il grano è biondo come un bambino. Qui si affettano prelibatezze di cinghiale, prosciutti straordinari, finocchione e sbriciolone tagliate a mano come la collezione di formaggi pecorini, di fossa, di sole, di primo latte e poi le mostarde di vino, di fichi d'india, di finocchietto, di pistacchi. Intanto si diffonde il profumo delle focacce a olio Pruneti o quello delle pizze coi capperi di Pantelleria o alla maialona. In questo trionfo di odori, sapori e ricerca di enogastrosofia, c'è un giardino dove, il lunedì, sul fare della sera, ci si trova fra amici a ragionare ora di un libro ora di un altro. Qualunque sia il contenuto, poi si finisce inevitabilmente a degustare, bere e mangiare con soddisfazione.
   Recentemente si sono riuniti un certo numero di amici ben assortiti, provenienti da vicino e da lontano, ad ascoltare la lettura di un breve ma molto intenso racconto, “La Dama dipinta”.
Alcuni conoscevano il libro e voce recitante, Pier Luigi Bacci, insieme all’autrice, ma ognuno è stato trafitto dalla crudezza della narrazione: si parlava di pedofilia e il punto di vista era quello della bambina e poi, più avanti, della bambina ormai donna. In quel pathos condiviso si è cercato un riscatto a quel male subìto da innocente, s'è cercato di ultimare il processo di cicatrizzazione attraverso l'oro dell'umanità, quando c'è ed è capace di accogliere su di sé il male del mondo. Sì, perché nelle carni di quella bambina sta il male del mondo che si rinnova ogni giorno e che, disgraziatamente, fa parte della vita.
Insieme abbiamo capito che “ da queste profonde/ferite usciranno/farfalle libere” e che perdonare chi ci ha fatto del male si deve, non perché il carnefice lo meriti, ma perché noi abbiamo bisogno di vivere in pace. Abbiamo capito di essere stati parte viva e attiva in un momento di grande emozione e di amorose corrispondenze sino a mettere insieme, pur in silenzio, i pesi e le paure di ognuno e di averle incendiate, incenerite, dissolte come inutile polvere leggera.
Solo la sensazione di un breve momento? Chissà ... farci poi coccolare da Gregorio col suo trionfo a tema, “Dalla Sicilia alla Toscana” come il titolo del libro che contiene il racconto letto, è stato un vero e proprio spettacolo. Ai prodotti sopra elencati sono stati aggiunti dolci siciliani appositamente fatti arrivare dall'Isola come i vini di accompagnamento: Malvasia e Passito di Pantelleria.
Mai è stato dimenticato che eravamo nella gloriosa sede storica del pastificio Fabbri, di quando la pasta si vendeva sfusa e a peso, con lo sportello aperto sulla via e gli essiccatoi alle spalle in funzione, accanto alle impastatrici in funzione. Oggi il pastificio, modernizzato, è solo accanto, come accanto sta sempre il passato al presente nella storia degli uomini e delle loro opere.
Così pure l'officina letteraria del lunedì qui trova residenza , perché le paure dell'uomo sono sempre le stesse: l'invidia degli altri, il giudizio sulle nostre azioni, il timore di fare passi più lunghi della gamba o di avventurarsi per salite troppo ardue per le forze che abbiamo. E la scrittura, quella buona, quando non è favola è storia, proprio come il cibo, quello buono, il bere, quello buono: quando non sono favola, sono storie vere.
   La calla è stato il leitmotiv della serata. E’ il fiore preferito della nostra bambina, oggi nonna. Un tempo la coltivava per lei il suo babbo. Oggi, in ogni calla c'è il ricordo gentile di quell'uomo. La vita ci dà un senso, sempre che noi la si lasci parlare: prima della scrittura, parla la vita.
Da Gregorio, nel suo giardino, ci siamo posti in ascolto della vita e della sua disarmonica armonia, tasti neri e tasti bianchi …
di Lorella Rotondi

sabato 8 aprile 2017

IL FASCINO DEL PESCE BALESTRA ALLA "TEGOLA"

Il fascino del pesce balestra alla tegola, un giorno a Livorno
   Una canzone di Niccolò Fabi, “Perde la città”, un certo punto recita così:
Hanno vinto i ristoranti giapponesi
Che poi sono cinesi anche se il cibo è giapponese
I locali modaioli, frequentati solamente da bellezze tutte uguali
Le montagne d’immondizia, gli orizzonti verticali
Le giornate a targhe alterne e le polveri sottili
Hanno vinto le filiali delle banche, hanno perso i calzolai
E ha perso la città, ha perso un sogno.
   Crediamo abbia ragione l'artista: là dove si perde il contatto, il lavorare con passione d'artigiano e in “verità”, gusto per quel che si fa, ci perde la città e ci perdono gli uomini. Non così al “TEGOLO” di Livorno in Piazza Garibaldi 10, quella vicino al Parcheggio MODERNO, per intenderci, perché a Livorno di Piazza Garibaldi ce ne sono tre. Questa è quella in fondo a Via Grande, dopo Piazza della Repubblica.
   Da Quercianella arrivano Patrizia Mazzeranghi e Alessandro Panichelli, proprietari del locale a Livorno da otto anni. Un locale che oggi sposa contaminazioni di recupero e inserimento di motivi architettonici contemporanei. Uno stile in cui i giochi di luce e la musica d'ambiente creano uno spazio coinvolgente. Primo dato apprezzabile sono i giorni e gli orari di apertura: 365/365 giorni l'anno a pranzo e a cena! Questo indica che casa è lavoro e lavoro è casa. La Signora Patrizia ha un talento naturale in cucina, ma educato per sensibilità e umiltà ai contatti avuti con gli chef incontrati negli anni. Il Signor Alessandro ci mette il gusto per le materie prime: il meglio di ogni rifornitore.
Ristorante di pesce fresco di prima qualità e per lo più locale, specializzato in crudité servite alla francese e pesce cucinato nella tegola, da qui il nome del ristorante. Meravigliosi i primi come la “carbonara di mare” o il “risotto al nero di seppia”. Antipasti come la “crema inglese giuncata con granella di pistacchio indivia belga lardo di Colonnata e gamberi rossi di Mazara del Vallo” o la “verticale di seppia o di baccalà”, sono difficilmente confondibili.
Cucina espressa, carta dei vini ben articolata e di accompagnamento armonico con i piatti proposti, dolci casalinghi e il caffè tostato a legna consentono di trascorrere una serata in cui Alessandro è un po' il “calzolaio” che non dobbiamo perdere se non vogliamo metterci nelle mani delle catene di montaggio o dei gastrosofi “confusi e felici” che parlano a volte a piatti vuoti, o, peggio ancora, comuni, che necessitano dell'estro della nonna all'uscio accanto per una proposta originale nel menù di tradizione.
   Sarà bene tenerci stretti coloro che non ci fanno perdere un sogno, quello di mangiare bene e di uscire di casa per non mangiare come a casa.

Lorella Rotondi.

lunedì 3 aprile 2017

MAI DIRE RUM A LIVORNO: PONCE AL RUMME

Mai dire rum a Livorno: ponce al rumme

   Venerdì 31di marzo alle h. 18,30 serata di grande impegno civico, cultura e divertimento alla Ruzzoteca di Valentina Del Santo e di Antonio Tardone, in via delle Sorgenti 1 a Livorno.
Il pretesto della serata lo ha offerto la presentazione, anche nel linguagio dei segni LIS, del libro di Ermanno Volterrani “Gastone Biondi, Storie e segreti del ponce al rumme”. Il progetto del libro dedicato a suo padre è di Caterina Biondi che ha collaborato fornendo prezioso materiale d’archivio della ditta di liquori Vittori.
   Tornando alla location, cioè alla Ruzzoteca, colpisce l’intelligenza di questi giovani che hanno inteso offrire uno spazio alla cittadinanza per curare la ludopadia con il gioco da tavolo, cui, chiunque si associ, può consumare un drink e giocare con tutto ciò che la sala offre, dai giochi classici ai più innovativi, presentati al Lucca Comix; si può anche consumare un’ottima apericena che si articola dai prodotti a filiera corta , come le frittatine con asparagi selvatici, dalle ottime focacce della nonna alle insalate di farro e a degli ottimi crostini neri alla livornese di Letizia Bianchi e Antonio carbone.
Il nome del locale, aperto due mesi fa, ha in sé una frenesia, un’istintiva passione che si rivolge a Firenze più nella sfera del corteggiamento scanzonato e amoroso, mentre a Livorno, ed i questo caso è rivolto a una febbre del gioco. E’ stato straordinario, oltre agli associati della LIS, incontrare giovani coppie con carrozzina a seguito, segno di una reale accoglienza verso ogni esigenza da parte dei gestori. Questa data, appunto il 31 marzo, poi è stato davvero un giorno speciale, poiché l’istrionico Ermanno Volterrani, assicuratore, cabarettista, scrittore e poeta vernacolare, ha saputo davvero elettrizzare l’aria con il suo seminario sul “ponce al rumme livornese” coadiuvato da Caterina Biondi, testimonial d’eccezione, poiché figlia di Gastone Biondi, della ditta Vettori Biondi attiva dal 1929 al 1990. Questa ditta di liquori è arrivata a produrre nel tempo una sessantina di etichette di cui 15 per le sole “bagne” per pasticceria che oggi sono di circa 30%, come titolo alcolometrico, ma allora dovevano essere dai 21 ai 70%. Gastone muore nel 2002 ma nel 1990 aveva venduto la ditta a un rappresentante che l’ha trasferita, udite udite in provincia di Pisa! Ma cosa c’entra la ditta Vittori con la storia del rumme?
   La storia ha inizio nel 1606 con le prime 6 balle di caffè arrivate nel porto mediceo con Ferdinando e forse per “merito” uno dei 4 mori che dirottarono un carico. Nel 1921 è aperta a Livorno la prima bottega del caffè e si deve certamente, sia il rango di città assunto da Livorno, che la cultura economica rapidamente raggiunta da questa città dalle leggi livornesi che concedevano qui di lavorare a chiunque, purché non avessero ucciso o realizzato falso in conio. Fu così che Livorno si arricchì della presenza di una forte presenza di ebrei e di africani provenienti dal nord in quanto perseguitati. A questa koinè si aggiunsero gli inglesi che portarono, fra l’altro, l’uso dei marinai di allungare il tea con il rum, ma dal 1921 i livornesi trovarono più economico e più gradevole allungarlo col caffè : nasce così il ponce che del tea mantiene solo la scorza di limone. Anche il rum, però, è costoso, sicché si inizieranno a studiare numerose ricette alternative. Quella della ditta Vittori-Biondi si impose per gradevolezza e trovò nella collaborazione col Bar Civili la miglior realizzazione di gottini di rumme alla “fantasia Vittori“ che si attesta sui 17%.
Anche la storia dello stesso Gastone, ultimo titolare della ditta, è di grande fascino: dall’essere riuscito a evitare la campagna di Russia perché registrato all’anagrafe con qualche giorno di ritardo, a essere orfano già a 9 anni, ad aver amato lo studio e il lavoro svolti simultaneamente, fino ad arrivare al Banco di Roma, aver preferito la direzione dell’azienda degli zii della moglie piuttosto che la direzione della banca a Como, ne fanno un uomo intelligente e appassionato di grande intuizione imprenditoriale. Dei suoi tre figli, solo Cristina ne erediterà la caratterialità, fino agli anni ’90.
L’uditorio contava fra i presenti tanti cittadini non udenti che hanno seguito questo affascinante racconto in LIS. L’ attenzione di tutti è stata alta e appagante per i relatori.
   Tutti siamo usciti coccolati da Letizia, Valentina e Antonio della Ruzzoteca, ma anche più colti grazie al Libro di Ermanno Volterrani e Caterina Biondi sul ponce al rumme di Livorno e più civili per il circuito di benevolenza e attenzione creatosi nell’uditorio. Non c’è che da sperare in altre presentazioni simili al più presto ricordandoci sempre di tutti i cittadini, specie di quelli in disabilità che hanno bisogno come gli altri di organizzare la loro vita oltre il muro della solitudine con incontri, giochi, cultura, piacevolezze, leggerezza e profondità del vivere insieme.
Vania Vitolo, presente alla serata,  mi ha parlato di una pedana vibrante che consente di sentire la musica ai bambini non udenti, mentre un’altra pedana dell’ ”acqua” sta per essere messa a punto.
Quanta grandezza e attenzione civile in una serata così!

Lorella Rotondi

sabato 1 aprile 2017

L'ESPERIENZA DELL'ASL

L’esperienza dell’ASL: punti di forza e di criticità

   Lo stage è un “ … periodo di formazione o perfezionamento professionale trascorso presso un’azienda per acquisire la preparazione professionale necessaria a svolgere una certa attività … ”, Garzanti online, previsto dalla legge 107/2015. Noi, classe 2^ D, abbiamo avuto modo di provare questa esperienza circa un mese fa: per una settimana, dal 27 febbraio al 5 marzo, invece di alzarci la mattina e andare a scuola, abbiamo trascorso sei ore al giorno in un’azienda che poteva essere un ristorante, per coloro che hanno scelto di fare sala o cucina, un albergo, per chi vuole fare ricevimento, oppure una pasticceria per chi, come me, ha scelto questo indirizzo.
   La pasticceria dove sono stata mandata si chiama “Gilli” e si trova in Piazza della Repubblica. E’ abbastanza conosciuta data la sua posizione e frequentata soprattutto da turisti ai quali non interessa più di tanto se i costi sono elevati e la mia paura più grande era di non esserne all’altezza.
Il primo giorno ero ansiosissima. Avevo il timore di fare brutte figure, ma allo stesso tempo non vedevo l’ora di iniziare questa esperienza. Le mie aspettative erano molto basse: pensavo che non mi avrebbero fatto fare niente, oltre a lavare utensili e cose varie e invece, con mia grande sorpresa, mi hanno messa quasi da subito con le mani in pasta. Letteralmente. Il secondo giorno, ad esempio, dovevo fare la pasta frolla. Loro mi dicevano via via le dosi degli ingredienti, dovevo pesarli e poi metterli nella planetaria o, per meglio dire, buttarli nella planetaria. Sì, perché le quantità erano dieci volte quelle che ero abituata a usare a scuola o a casa e non avevo abbastanza forza per sollevare gli ingredienti e versarli con grazia. Quando poi dovevo mescolarli insieme, magari nei punti in cui la frusta della planetaria non arrivava, una normale spatola non bastava e allora dovevo farlo con le mani, ma dato che la planetaria era molto profonda, da terra mi arrivava ai fianchi!, mi ci dovevo praticamente buttare dentro. Non mi soffermo più di tanto a dire che ho dovuto lavare la divisa più volte in questa settimana che in tutto l’anno scolastico. In momenti come questi, in cui tutta la responsabilità dell’impasto era su di me, la mia ansia saliva a dismisura.
Anche perché avevo scoperto che i dolci che facevamo lì non erano solo per il “Gilli”, ma anche per il “Paszkowski”, il bar accanto, e per il bar “Scudieri” di Piazza Duomo.
Mi avevano dato tanta fiducia e io mi sentivo in dovere di fare bene. Non tanto per non fare brutta figura, quanto per non deludere il cliente. Per la prima volta in vita mia ho sentito nelle mie mani la responsabilità della soddisfazione del cliente: ovviamente non era così. Quello che facevo era solo una parte di un dolce composto anche da altre preparazioni, però mi ci dovevo impegnare lo stesso.
Un altro aspetto di questa esperienza che vorrei trattare è la sveglia la mattina. Partendo dal presupposto che io odio svegliarmi presto, ero convinta che la parte più dura di tutte fosse proprio questa in quanto per essere lì alle h. 7,00, ogni mattina dovevo svegliarmi all’incirca alle 6 che, per come sono abituata, è abbastanza presto. Invece mi è risultato più semplice del previsto, forse perché mi svegliavo con la consapevolezza di andare a fare qualcosa che mi piaceva in un ambiente allegro e molto “sciallo”.

   In conclusione, credo che, anche se è stata molto stancante, questa esperienza mi abbia insegnato qualcosa: non solo per quanto riguarda la pasticceria, ma anche dal punto di vista aziendale.
Ho vissuto il “dietro le quinte” e ho osservato tutti quegli escamotages utili per evitare di buttare via cibo e denaro

Alessia Saccone  Cl. 2^ D IPSSEOA “A. Saffi” - Lorella Rotondi