martedì 20 marzo 2018

CHIAMARSI TERRA NERA E NON SENTIRNE IL PESO


Chiamarsi Terra Nera e non sentirne il peso
   Se digitiamo su un motore di ricerca terranera compariranno una serie di località e di ristoranti italiani e non: dall’Abruzzo, nel cuore del Parco Nazionale, al Piemonte, al Grossetano a Santorini con un’eccellente offerta di “cibo in spiaggia” e lettini gratis sul mare.
Compare anche un documentario sul lavoro nero minorile.
Non compaiono invece le speranze di tre giovani, Beatrice, Alessio e Luca che hanno scommesso su Terra Nera a Ruòsina, sopra al forte, direzione Stazzema, ma a mezzo monte, dove la storia dell’eccidio c’è passato senza farci stazione, dove un po’ tutto inizia a scorrere verso il mare di cui ti arriva pure l’odore in certe notti di mareggiata.
Cosa offre Ruòsina? Il fresco rispetto alla costa quando affoga nella calura, perché i boschi e le montagne ci respirano addosso, quasi sulla strada provinciale, appena una spalletta oltre il torrente ripulito e bianco, coi sassi che ti dicono dei marmi pregiati poco distanti.
Ruòsina non è un buon punto di partenza: è un ottimo punto di arrivo, magari da cui partire, iniziare, ma ci approdi solo dopo giri lunghi intorno al mondo. In Australia, insomma, ci devi già essere stato e così a Parigi, devi aver visto tanti colori e annusato tante strade diverse per capire che la storia che c’è qui, buttata come un cencio, è una storia buona di gran fatica ed è un pezzo di Toscana di pregio.
Nel 1500-’600 qui c’erano miniere di carbone e ferro. Lungo il trasporto la terra si faceva nera, ma nera è pure quando fa buio ed è umido intorno. Quest’umido scopri, dopo giri ampi e ricchi di incontri, che è carico di profumi e di fermenti genuini. Così Angelo Cinquini, Luca Cinquini, Alessio Casti Lebiu e Beatrice Cinquini hanno scommesso di poter raccontare la storia di questo pezzetto di Toscana nel loro circolo culturale e ricreativo che hanno chiamato Terra Nera, senza sentirne il peso, ma piuttosto il profumo. Qui ospitano artisti diversi: fotografi, pittori, scultori, poeti, narratori, musicisti, fantasisti, registi, attori … capaci di narrarsi, ma anche di saper ascoltare la storia carbonara di Terra Nera e di Ruòsina, dove carbonara sta per “storia segreta”, un po’ nascosta, ma già ci dice pure dell’altra passione della brigata Cinquini-Casti Lebiu: la cucina. L’intento principale è quello di mettere a tavola i buoni prodotti locali, freschi e a filiera corta. Il pane che lavorano per i loro clienti rende “dipendenti”: Beatrice è veramente brava, ma anche il forno a legna fa la sua parte. Poi i cantuccini e tartufi alla pasta di mandorle e il cocco avvolto nel cioccolato di Agliana sono un altro rimedio contro insonnia e depressione da accompagnare a un buon vin santo o,  semplicemente, a un ottimo caffè, tutto preparato da Beatrice. Particolari le carni locali trattate alla sarda alla maniera di Alessio, chef già in un bellissimo resort sardo (Forte Village), capace di mantenere un gusto diverso, gradevole e fresco, molto naturale. Le pizze di Luca fanno serata: farine di qualità e prodotti genuini oltre al forno a legna sono il segreto della riuscita. Ai tavoli il garbo di Angelo e di Beatrice, la bella figlia che ha conosciuto anni parigini con gli ordini con l’erre francese, si fanno prossimi alle richieste dei clienti, ventisette e non di più alla volta, cercando di capire cosa sarà meglio offrire della loro Terra Nera, quale segreto rivelare, quale storia lasciare sospesa per la prossima volta, mentre arriva lontano l’eco del mare, vicinissimo il profumo dei quercioli e dell’acqua dolce sui sassi aguzzi del torrente.
Intanto Alessio pensa un altro primo e un altro secondo di stagione con le giardiniere croccanti preparate da loro e i funghi che nasceranno al primo sole dopo l’acqua, gli asparagi selvatici e le uova fresche per tirare la pasta e tagliarci nastroni da sposare al cinghiale in bianco, ma anche al tartufo non guasta la storia.
Certo ci piacerebbe ci fosse lo spazio per riporre qualche gioco da tavolo, farne un po’ una ruzzoteca, per dirla con gli amici livornesi, nel primo pomeriggio, con centrifughe, caffè, thè e tisane delle Terza Luna, magari!, assolutamente ineguagliabile quella alla seta. Ci piacerebbe della pasticceria da colazione al mattino con latte e caffè alla maniera familiare o del pane casalingo e marmellata fatta da loro con le more prepotenti di settembre e le fragole di bosco che già accennano a farsi . Questo è un circolo che si chiama Terra Nera ma che fa un gran cerchio azzurro in cui trovarsi a ogni ora a parlare come a stare in silenzio, a trovarsi, come a rincontrare se stessi scrivendo e dipingendo in laboratori artistici e dove, sempre e comunque, gustare buone piccole cose sane e fresche come la vera felicità.
di Lorella Rotondi

lunedì 19 marzo 2018

UN SAN VALENTINO ESCLUSIVO?


Un San Valentino esclusivo?
Un San Valentino a I’RitroVino di Caino
   Al civico 67 di Via di Burello, località Torre a Ficecchio in provincia di Firenze, ci sono Simona e Simone col personale Bar- Alimentari- Enoteca.
Simone, in verità, è un geometra, porta qui a vivere tre anni fa la sua giovane compagna dopo un’attenta ristrutturazione che prevede abitazione ed esercizio. Simona gli ha rivelato di voler cambiare lavoro e si stava guardando intorno, quando il Simonepensiero risolve definitivamente ogni dubbio a entrambi. Così dall’incontro e dall’amore nasce un’unione vincente, un nido di vita e di lavoro. Simone ogni giorno si reca allo studio e Simona scende la scala e “apre bottega”: le colazioni, le ricariche del telefono, poi i panini, qualche, fortunatissimo!, avventore a pranzo in inverno, molti in primavera e in estate nell’ampio giardino dove si organizzano anche serate a tema. Il pomeriggio è aperto dalle 16,30 alle 20,00
I prodotti e la cucina sono solo di alta qualità e quindi, bontà garantita: cantina assortita di vini toscani e abbiamo apprezzato in particolare “Puro” un chianti senza solfiti aggiunti della fattoria Lavacchio, prodotto per hobby da una signora che di mestiere fa il chirurgo, ma anche dell’ottimo vino!
Al banco c’è una ricca selezione di formaggi e salumi straordinari. Il tagliere diventa intricante, associando il formaggio al tartufo, il cacio fresco di Lucca con il miele di sulla o la salsa di finocchietto selvaggio e la burratina campana o la mozzarella di bufala, il formaggio stagionato in grotta e il prosciutto cenerino, la finocchiona. Farà da protagonista , per chi se ne intende davvero, una soppressata così fine nel gusto ingentilito dalla fragranza agrumata che difficilmente se ne trova ancora. In cucina i piatti sono preparati con professionalità e accuratezza dal team familiare e si mangiano i piatti di un tempo e di stagione. Quando, viaggiando, ci siamo trovati a gustare qualcosa a I’RitroVino, erano impegnati per il catering in commemorazione del grande pittore e scultore Arturo Carmassi che a Torre ha trascorso gli ultimi anni della sua vita e nella sua abitazione-laboratorio sono conservate opere e archivio. Ricordo di aver visto una sua mostra a Ferrara, a Palazzo dei Diamanti nel 1977: io giovanissima e lui un gigante indimenticabile!
Un piccolo viaggio ci ha condotto in un nido d’amore e di sapori e di saperi. Perché non progettare qui il pranzo di San Valentino? Certo solo per i più fortunati, poiché i tavoli sono solo quattro e posti nell’antica stalla con ancora la mangiatoia e la pendenza per lo scolo. Pensiamo possa essere di buon auspicio, visto la gioia e il clima sereno che si respira in questa botteghina accanto al vecchio appaltino di cui ha ereditato le incombenze e allo studio artistico del grande Arturo Carmassi.
Da non perdere una piacevole sosta qui, nella casa rosa di Simona e Simone, telefonando alla gentilissima signora Bartolomei al 338/3205855.
Presenti su Facebook e Sito I’RitroVino di Caino.
E’ passato San Valentino? L’è sempre un gran bel … ritrovino!!!
di Lorella Rotondi

venerdì 2 marzo 2018

VINI DOCG E DOC DEI COLLI BOLOGNESI


VINI DOCG E DOC DEI COLLI BOLOGNESI
Prezioso scrigno di qualità e piacevolezza
   Quando i romani, circa due secoli prima della nascita di Cristo, sottomisero e unificarono sotto il segno della lupa i territori abitati dalle irrequiete tribù dei galli boi, avevano probabilmente mille motivi per farlo, non esclusi quelli legati alle ricchezze agricole di tali zone.
I filari di vite erano maritati ad alberi vivi, secondo l’uso introdotto dagli etruschi e sviluppato successivamente dai galli. Tale metodo infatti, lo si chiama “arbustum gallicum”, particolarmente adatto non solo alle terre basse e umide della pianura, ma soprattutto si era incrementato notevolmente sulla zona collinare. Nella maggioranza dei casi erano gli ulivi, che in queste colline avevano trovato un ambiente favorevole al suo sviluppo, tant’è che dopo oltre venti secoli, in alcune aree, tale coltivazione è ancora viva e in netta ripresa.
E’ accertato che da tali terreni, soprattutto quelli collinari posti a sud di Bononia, i nostri antenati latini producessero vini che li appassionarono moltissimo!
Le terre dell’agro bononiense erano coltivate dai veterani di tante campagne militari in tutto il mondo allora conosciuto, per cui la bevanda bacchica era palesemente bevuta, gustata e apprezzata!
Plinio il Vecchio, I° sec dC, nel capitolo “Ego sum pinus laeto” tratto dalla monumentale opera di agronomia “Naturalis historia”, enuncia che in “ … apicis collibus bononiensis … ” vi si produceva un vino frizzante e albano, cioè biondo, molto particolare ma non abbastanza dolce per essere piacevole e quindi non apprezzato, poiché è risaputo che durante l’epoca imperiale era gradito il vino dolcissimo, speziato e aromatizzato con innumerevoli essenze, inoltre, sempre molto “maturo” in quanto i vini giovani non erano in grado di soddisfare i pretenziosi palati della nobiltà. Erano trascorsi poco meno di tre secoli dalla conquista romana, 179 aC, che il vino era radicalmente mutato, ma non le qualità e caratteristiche uniche di tale nettare.
   Dalla caduta del Sacro Romano Impero d’Occidente, 476 dC, fino ai secc XI° e XII°, per l’umanità del vecchio continente, è stato un periodo decisamente buio e cupo, però l’essere umano nelle ricchezza dell’inventiva e miglioramenti, stava progredendo con passi sempre più rapidi e decisi all’indirizzo di quella evoluzione sociale certamente complessa e difficile, ma sicuramente ricca e desiderata, in ogni settore di vita.
E’ unanimemente riconosciuto alla Chiesa il merito di aver difeso la coltivazione della vite.
Fu l’imperatore Costantino il Grande nel III° sec dC a stabilire che il cristianesimo divenisse la religione di stato abiurando quella dell’idolatria professata fino ad allora.
Con l’eucarestia, quando Cristo durante l’ultima cena trasmette il suo pensiero agli apostoli “ … questo è il mio sangue offerto per la salvezza dell’umanità … ”, ebbene, quel vino contenuto nella coppa ne rappresenterà l’essenza interiore.
   All’interno delle massicce e sicure mura di conventi e abbazie, la vite è coltivata per ottenere quel vino simbolo di religiosità e continuità di fede, in considerazione delle innumerevoli invasioni barbariche che stavano travolgendo l’Enotria Tellus, poiché anticamente così era apprezzata e chiamata l’Italia.
Tra situazioni alterne, si arriva al VII° sec in cui si verifica un momento determinante per il futuro dell’agricoltura e del vino. Nel 612 a Bobbio, nella solitudine dell’appennino piacentino, si stabilì, proveniente dalla natia Irlanda, San Colombano, fondandovi il celebre monastero. La tradizione tramanda che per essere accettati e divenire monaci, oltre alla fede, il novizio doveva avere nozioni di “agricoltura”. Il nostro priore mandava i confratelli a diffondere non solo la voce della cristianità ma anche quella della coltura, coltivazione e ripristino agreste delle campagne devastate dalle incursioni dei briganti.
E’ certo che gli antichi progenitori latini non avrebbero scomodato Bacco o, ancora precedentemente il Dionysos dei greci, per cui anche San Colombano nella sacralità rappresentata dal vino, se non che, unanimemente, avessero intuito che questo nettare per gli uomini aveva in sé una molteplice potenzialità: rimedio alle fatiche, edonistico e spirituale, in contrasto con quella del veleno!
Fin dai tempi antichi il vino ha avuto appassionati fautori e acerrimi nemici.
Ippocrate, padre della medicina, lo considerava un ottimo medicamento utile a migliorare le funzioni dell’apparato digerente e quelle della psiche!
Altri importanti dotti ne enunciavano le rare e salvatrici peculiarità: Asclepiade, San Paolo, Platone e a Cicerone, che la tradizione ne attribuisce “l’invenzione” dell’etimologia del nome, in quanto si vuole che vino derivi contemporaneamente da VIR-uomo e SIS-forza, per cui ecco il latino “vinum”.
Anche se il grappolo d’uva è il simbolo dell’unione, dell’amicizia e il calice quello della festa conviviale, il vino ha trovato nei secoli anche medici illustri ed irriducibili che lo contestavano e altri che lo vietavano: in ambedue i casi, con atteggiamenti pregiudiziali e senza alcuna conoscenza degli effetti sugli organi. Lo sviluppo delle conoscenze mediche chiarì negli anni gli effetti benefici e dannosi dell’alcol sul nostro organismo.
Gli scritti medici riguardano sempre gli effetti nocivi delle dosi eccessive, confondendo così le azioni del vino con quelle dell’abuso alcolico e della dipendenza che esso può dare e trascurando, quasi sempre, un fattore importante: il vino non contiene solamente alcol, ma centinaia di altre sostanze che interagiscono coi diversi apparati del corpo umano, principalmente col cuore e coi vasi sanguigni e il resveratrolo con i benefici che apporta, scoperto qualche anno addietro, ne è la conferma.
   Riprendendo il cammino alla ricerca di tracce che ci possano condurre ai vini che oggi degustiamo, ci imbattiamo nelle biografie dell’operosità di tali monaci-agresti che sono giunte fino ai giorni nostri, in cui si menzionano i notevoli impulsi dati per lo sviluppo della vite.
Si sparsero in tutte le regioni italiane e nel migrare verificarono che sulle colline bolognesi si produceva un buon vinello dorato e mordace, appunto frizzante.
- OMNIA ALLA VINA IN BONITATE EXCEDIR - decisamente “ … un vino superiore per bontà a tutti gli altri … ” e bevuto non solo durante le pratiche liturgiche, ma anche con gioia alla tavola del nobile e del volgo, ottenuto da uve conosciute e apprezzate come pignole!
I secoli che da allora sono trascorsi per giungere fino ai giorni nostri, sono stati indiscussi testimoni di innumerevoli fatti e citazioni riguardanti i vini delle nostre splendide colline bolognesi.
   Nel 1300, Pier de’ Crescenzi, nel più importante trattato di agronomia medievale “Ruralium commordorum - libro XII”, descriveva le caratteristiche organolettiche del “pignoletto” che si beveva allora, in quanto il vino, oltre che maggiormente prodotto, era quello più gradito per piacevolezza e per la vivace e dorata spuma.
   Agostino Gallo ne “Le venti giornate dell’agricoltura” del 1567, sollecitava di piantare le uve pignole in quanto per la notevole produzione, permetteva un florido commercio perché sempre ricercate.
Medico e botanico di Papa Sisto V°, il Bacci, nel personale trattato del 1596 “De naturalis vinarium historia de vitis italiane”, asseriva le “ … rare et optime … ” qualità intrinseche dell’uva pignola.
Così pure Soderini, noto agronomo fiorentino, sempre in quegli anni, ne confermava le caratteristiche.
Il Trinci, 1726, pone in evidenzia le caratteristiche di tale vitigno: l’odierno pignoletto si riscontra nella sua quasi totalità di tali affermazioni, per non dire che sono le medesime.
Ulteriori conferme sono riportate nel “Bullettino Ampelograficho” del 1881, in cui è nominata l’uva pignola prodotta nelle colline poste a sud dell’urbe di Bologna, la cui assomiglianza con l’attuale produzione è stupefacente, e non lascia più adito ad altri dubbi di sorti.
   Il pignoletto, attraverso vari appellativi e caratteristiche mutate al solo evolversi del tempo, lo ritroviamo oggi con gli stessi principi organolettici di allora: un vino unico e ricco di peculiarità.
Recenti ed approfondite ricerche ampelografiche, hanno posto in evidenza definitivamente che il vitigno da cui si produce il nostro pignoletto, non è altro che l’umbro “GRECHETTO GENTILE”. Pertanto, il vino si può e si deve continuare a chiamarlo PIGNOLETTO DOCG, ma il vitigno da cui si produce è, appunto, il grechetto gentile.
E’ risaputo che tale vino è considerato il “Re dei Colli Bolognesi”, ma anche le altre dorate tipologie enoiche prodotte in questi fazzoletti di terra collinare quali pinot bianco, riesling italico, sauvignon, chardonnay, bianco bologna, nelle molteplici vesti di tranquilli, frizzanti o spumanti e altrettanto per la sanguigna barbera ed i rubini merlot, cabernet sauvignon e rosso bologna, sono vini decisamente esclusivi, tipici e caratteristici e sottoposti al disciplinare ministeriale della DOC che ne salvaguardia le qualità per un consumatore sempre più attento ed esigente, onorando così un detto della Bologna godereccia, il cui anonimo autore di due secoli fa, ne era senz’altro un estimatore:
“A tavola c’è silenzio quando si mangia bene ma si beve male!”