mercoledì 21 dicembre 2016

ANDAR PER CASTELLI A RAGIONAR "... di noi e di loro ..."

Andare per castelli a ragionar “ … di noi e di loro … “
   Ne “IL GIORNALE DEL CUOCO” del 19 luglio scorso, esce un interessante pezzo dal titolo “Firenze in cucina, tradizione che rischia di andare perduta” di Eliseo Guidetti, Lino Amantini e Nicola Dolfi.
Gli autori rimpiangono il tempo perduto, quando questa città poteva, a ragione, vantare eccellenze artigianali e una serietà di produzione tipica che poco, se non addirittura nulla, aveva a che fare con il voler compiacere il turista, se non mostrandosi in un'identità custodita senza “assalti” e reali “sabotaggi” esterni. “Noi, s'era noi, gli altri erano loro”: non è difficile sentirsi dire così ancora da qualche buon oste di valico come pure nel cuore di Firenze, sempre che non abbia ceduto il fondo a un kebab o ad un fast food. Come dare torto agli autori poi, quando dicono che gli Istituti Professionali Alberghieri difettano di ore di laboratorio necessarie alla trasmissibilità di un mestiere tanto importante come la cucina e l'enogastronomia? Ci trova meno d'accordo quando si dice: “ … che molti cuochi hanno nostalgia del percorso alla scuola alberghiera, con 26 ore la settimana di pratica in cui, oltre alle basi, si insegnava proprio la cucina tipica toscana. Adesso, più che di formazione professionale, si tratta di un parcheggio per giovani che si ritrovano all’interno di un istituto parificato agli altri, non all’interno di una scuola professionale. A nulla valgono gli stage dei ristoranti se a scuola non si danno gli strumenti di base agli alunni”.
Il punto è che bisogna darli ugualmente: fare il doppio, anche il triplo con un terzo del tempo. Il problema è piuttosto questo. Inoltre, si aprono i ragazzi alle altre culture, “quelle loro” per intenderci, poiché le migrazioni col picco degli anni ottanta fino a oggi, ha reso Firenze, al pari di altre località europee, una città multietnica. Ma è solo conoscendo profondamente le proprie radici che ci si può aprire alla comprensione e al dialogo con l'altro. Questo è quanto avvenne, a esempio, all'indomani della scoperta delle Americhe. Entrarono tanti prodotti loro, ma rimanemmo noi. Marc Bloch ci consigliava “ … di non confondere la ghianda con la quercia”. Se io napoletano, insomma, e torniamo alla cucina, ho in mano il pomodoro americano , ma ne faccio la pomarola, ho solo arricchito la mia cultura ed emancipato i maccheroni dalle foglie con cui li condivo prima: nessuno pensa all'America mangiando lo spaghetto al pomodoro. Alla stessa stregua se il crostino nero fiorentino anziché sul pane, distendo il paté di fegatelli, milza, capperi, acciuga ... su un pezzettino di polenta, nessuno parla di “ rivoluzione americana nella cucina fiorentina”, anzi! E’ l'America attratta e subalterna, resa funzionale, alla storica cucina italiana. Potremmo andare avanti per ore, ma qui mi fermo e passo a dire come una classe II^ dell'Alberghiero “Saffi” si rechi in un Castello del Chianti, quello di Verrazzano, a cercare di capire e carpire l'eco, ma anche il segno, di tradizioni dure a morire.
Le cantine sono il fiore all'occhiello della antica dimora del grande navigatore Giovanni da Verrazzano che risalì l' Hudson sino alla baia dell'attuale N. Y. per la bandiera francese di Francesco I°. Al castello, le cucine sono sempre aperte, non c'è un orario del pranzo, inconcepibile per noi. Ma è giusto che i visitatori possano essere accolti al meglio e che si vada incontro alle loro esigenze di spostamento. Però la cucina è rigorosamente toscana: le pappardelle al sugo di cinghiale cacciato nei boschi di proprietà, l'arrosto girato, il tagliere coi salumi e formaggi locali, pane di grani antichi cotto e lievitato semplicemente all'antica, vin santo di produzione propria e cantucci fatti nelle cucine del castello secondo l’antica e culturale tradizione locale. Sul tavolo, olio extravergine d'oliva sempre del castello e “spezie del Chianti”. Tradizione rispettata dalla filiera corta, anzi cortissima, ma con una gestione accogliente che vuole andare incontro ai numerosi visitatori americani con cui corre un gemellaggio, ai francesi, coreani, giapponesi, etc. Del resto, se dopo una certa ora sono aperti solo kebab e ristoranti cinesi, di che ci lamentiamo? Personalmente, parto sempre sapendo già dove andare a mangiare. Mi preoccupa più dell'albergo.
   Mangiare è un atto intimo, serio e di grande fiducia, in quanto è entrare in dialogo con un aspetto ampio della cultura del territorio. I visitatori seri sono preparati e cercano Firenze in tavola, se sono a Firenze e NON si lasciano distogliere dal “butta dentro” all'americana.
   Basta questa visita al Castello, pur con la spiegazione del titolare, dell'enologo Prof. Blasi, del Prof. di cucina Violi, dell'esperta di comunicazione enogastronomica Maria Luisa Bruschetini, a sopperire alle 26 ore di laboratorio che non ci sono più? No davvero. Appena appena bastano a far comprendere, forse, che oggi si accoglie diversamente, si educano i palati al “nostro” e se questo merita, è probabile che lascino il “ loro”. Il 17% del vino esportato al mondo è ancora italiano. Le nuove leggi europee rendono la vita difficile al nostro olio extravergine e al migliore in genere, più della mosca assassina. Ma è pur vero che non si aspettano la qualità a basso costo i buoni turisti e che dobbiamo offrire la nostra identità e la nostra onestà. Se c'è bisogno di un microchip in grado di registrare la “vita” di ogni bottiglia per cinque anni (luce, inclinazione, tappo, temperatura, ... inventati da due italiani, Mattia e Antonio, domenica 18 dicembre 2016 cfr. RAI 3 ilpostogiusto@rai.it), vorrà dire che il trasporto di questa merce preziosa va ancora tutelata e che l'acquirente non si fa specie del ricarico “a bottiglia”. Il problema non sta in altri che “aprono”e mettono in campo la loro cultura, la loro identità: sta in noi che non abbiamo mai creato un'identità nazionale, ma ci siamo arroccati in quella regionale o , addirittura, del proprio orticello, pensando che il prestigio si mantenesse da sé, nonostante i tempi volgessero in altre direttrici.
   Non serve a nulla un pensiero negativo. La comunicazione deve essere sempre positiva. La cucina italiana deve aver cura di sé: partire dalla difesa della terra, dei territori, della genuinità del prodotto. Deve accogliere con sicurezza nelle proprie competenze e far lavorare i giovani perché le acquisiscano. Se i tempi sono duri, e lo sono, non va perso tempo a ricordarcelo a vicenda: si devono incanalare energie costruttive.
Tessere reti è importante: vendere già nei paesi di provenienza, la sosta nel locale, flessibilità negli orari, saper trattare lo straniero, il turista, col garbo che merita perché sia a suo agio, ma percepisca piacevolmente di essere a Firenze o nel Chianti o a Venezia.
Proviamo a non deludere, proviamo ad apprendere veramente l'inglese e a farlo apprendere ai giovani, a offrire un servizio che dovrebbe andare dall'aeroporto, al soggiorno, alle soste d'arte e culinarie e allo shopping del made in Italy.
Andare per castelli a ragionare di noi e di loro può essere molto utile. Ricordando, magari, che al tempo del castello stesso, già tanta storia della nostra città era stata scritta. Ce lo ricorda pure il nostro Battistero: la formella dei commerci e del vino, il telaio ... le arti.
Credo che solo gli Italiani conoscano l'arte di vivere tanto profondamente. Dobbiamo tornare a coniugarla ai valori e alla fatica. Dobbiamo sacrificare degli onesti e competenti alla politica. Dobbiamo deciderci a considerare i reati, … reati!
La scoperta dell'America non ci ha portato nessuna rivoluzione né in cucina, bene!, né in democrazia, male! Il brand italiano ha ancora molto da dare e da dire poiché vanno superati certi schemi. Bisogna comprendere che lo storico, il giornalista, la televisione, fanno parte di una rete che può rivelarsi forte e positiva.

di Lorella Rotondi

martedì 6 dicembre 2016

"Rubò sei cervi nel parco del re ... "

“Rubò sei cervi nel parco del re … ”
di Lorella Rotondi
   Il furto non è mai stato favorito, anzi, è stato sempre considerato grave.
Quello più comune, cioè della frutta, di una mela in particolare, è oggetto ancora di memoria e di ... catechizzazione., ma eravamo nell'Eden e il frutto era dell'albero della sapienza.
Continuando fra i miti greci, il furto del fuoco condannò il generoso Prometeo a un supplizio tremendo per trent'anni: un'aquila gli divorava il fegato ogni giorno e questo si riformava per volere di Zeus, perché il giorno seguente la tortura si potesse ripetere: sadico e perverso anche se era il re degli dei!
Il furto dello zafferano o il solo pestarlo mentre ci si recava a caccia, era motivo di condanna a morte, poiché il valore, ieri come oggi, è sempre stato equivalente all'oro. La morte era ciò che spettava anche ai ladri di sale o di spezie
Mi viene in mente Giles Milton, “L'isola della noce moscata”, Ediz. BUR: immenso l’intrinseco valore, per noi oggi inimmaginabile, e carico di sangue, di guerre e di vie tracciate fra terre inospitali e oceani solcati su navi spesso insicure e sovraccariche.
Ma il passato non ci trasmette solo una tradizione di cibo e sangue, furto e punizione, spesso metafora della felicità terrena che non si ottiene perché una vita sia senza problemi, bensì per il superamento degli stessi e delle ... tentazioni.
Abbiamo anche un' attenta osservazione delle attività dei mesi, delle stagioni e delle attività a esse collegate con paziente devozione.
   I libri di pietra parlano chiaro e a lungo, a Venezia come a Brescia, a Ferrara come ad Arezzo. Massimo Montanari nella sua recente pubblicazione, “Il sugo della storia” , rileva che in una formella del Battistero di Parma, XII° sec, l'Antelami ha raffigurato un contadino che strappa due grosse rape (pag. 138). Lo storico aggiunge che queste, in tutte le varianti, erano tanto importanti nell'alimentazione quotidiana che non erano sottoposte a gabelle né alcuno veniva punito per il furto di un paio di rape: si faceva finta di nulla di fronte alla fame: allora i signori erano veramente Signori, evidentemente!
   Ma è anche interessante notare che si rimaneva legati alle radici, oggi diremmo identità sociale, senza bisogno di contraffazioni (penso alle finte griffes tanto in voga per quanto siano perseguite sistematicamente dalla legge anche in campo alimentare!). Montanari riporta un racconto su Bertoldo, il contadino di Giulio Cesare Croce, che mangiando a corte cibi raffinati si ammala e invoca i “suoi” cibi”: un po' di cipolla e fagioli, le amate rape cotte sotto la cenere. Le sue radici in ogni senso” (ibidem).
Rubare il profilo altrui era un reato grave, lo si sentiva nelle viscere, sino a morirne. Ognuno ne tragga la morale che crede. Geordie cacciò per denaro, dice Fabrizio de Andrè nel nostro titolo, non aveva vent'anni e pagò con la vita. Eppure era consentito, finito il tempo delle battute di caccia del Signore, cacciare nel parco del re si poteva. Evidentemente era ancora tempo di caccia per il re e non per i Geordie del suo feudo. Non è, dunque, solo questione di furto, ma anche di rispetto delle leggi della natura e degli uomini.

   La buona cucina non fa eccezione: se non è in linea con la generosità delle stagioni e con l'onestà del prodotto genuino, meglio se a filiera corta, rompe un patto antico e compie altro furto grave: la salute del commensale …

domenica 2 ottobre 2016

CIRIOLE E SCARZUOLA


di Lorella Rotondi
   L'Umbria coagula queste due meraviglie: una pasta e una città ideale. Tutti conoscono Sabbioneta, Palmanova, Pienza, ma pochi Scarzuola in provincia di Terni. Va meglio alle ciriole, un primo di pasta semplice, un piatto povero simile ai pici toscani.
La bontà sta tutta e soltanto nella materia prima: ottimo grano duro e acqua per la pasta, olio evo, prezzemolo, aglio locale, peperoncino e passata di pomodoro per il condimento. Si impasta e si lascia riposare sotto un canovaccio umido l'impasto delle ciriole per un'ora, quindi si ricavano dei serpentelli dal diametro di 3-4 mm e lunghi 10-15 cm. Si procede intanto con il condimento facendo soffriggere aglio olio e prezzemolo e aggiungendo la salsa e il peperoncino. Il sale sarà cura di tutti usarne poco, sia nell'acqua di lessatura delle ciriole, che del condimento.
   Andando alla Scarzuola troverete certamente agriturismi e ottimi ristoranti in grado di soddisfare questa curiosità, consentendovi un approccio col sapore di questa terra semplice, intensa, originale nonostante la vicinanza con Roma . La Scarzuola ha gli stessi ingredienti: semplice, intensa, originale. Nasce da un sogno di Tomaso Buzzi nel 1956: una piccola città non dove vivere, ma dove pensare, riflettere, restare Uomini. E la città non conosce linee rette, perché il pensiero non si muove per segmenti , ma per circonvoluzioni: fili di pensieri che si flettono, si inarcano, curvano, rimandano, si chiudono in cerchio. Le ciriole si saranno disposte nel nostro piatto allo stesso modo e se avremo avuto un momento di pazienza prima di ordinarle con la forchetta, alcune avranno certamente proposto percorsi simili.
   Buzzi, per anni collaboratore di Gio Ponti e dopo aver lavorato per Agnelli, Visconti Mondrone, George Cukor a Hollywood, Contini Bonacossi a Firenze (oggi Palazzo dei Congressi), acquista l'antico convento francescano dove forse dimorò il santo nel 1218 e si riparò improvvisando una capanna con la scarza (da qui il nome), una pianta del luogo. Nel tempo si era aggiunta una via Crucis in terracotta cui Buzzi accosterà edifici in mattoni, decorazioni in ceramica e reminiscenze di tante opere classiche, ma anche il faccione di un mostro per evocare Bomarzo, un labirinto musicale e sette teatri, la Madre Terra e il Tempio di Apollo.
Scolari sostiene che si tratta di un “ … percorso iniziatico, in cui si integrano verde, acqua, fuoco, terra, vita e morte, divini e mortali; una traduzione concreta dell' Hypnerotomachia Poliphili, per Umberto Eco il testo più bello del Rinascimento, l'amoroso combattimento onirico di Polifilo”.
   Con la morte di Buzzi tutto il complesso è stato vincolato. Era solito dire che qui aveva ancorato il suo passato, presente e avvenire postumo. Buzzi riconosceva che la Scarzuola soffriva di troppe idee, è “ … l' arca delle mie idee, incagliata al suo Ararat, la piccola Pompei di un solo uomo e un uomo solo, una carcassa, un guscio vuoto … ” e poi ancora ” … sono un matto, come tutti quelli che hanno abitato qui, cominciando da San Francesco … ”.
   Chi avrà commentato con un sorriso il semplice introduttivo avrà qui avuto spiegazione da Tomaso Buzzi (1900-1981), fondatore con Gio Ponti di “ Domus” nel lontano 1928.

Da vedere prima che torni polvere, farina di un sogno impastato nell'acqua buona della terra umbra.

sabato 13 agosto 2016

CONSERVE ALIMENTARI

CONSERVE ALIMENTARI
   Le conserve alimentari hanno radici che si perdono nella notte dei tempi, in quanto fin dai tempi antichi venivano preparate in casa dalle massaie che impiegavano sale o aceto oppure, più semplicemente, utilizzavano il primordiale sistema dell’essiccamento. E’ solo verso la metà del XIX° sec che, grazie all’avvento dell’industria alimentare, si passò dalla tradizione familiare alla produzione su larga scala.
   Lo Zingarelli definisce conserva “ …. alimento vegetale preparato per essere conservato a lungo mantenendo le proprie caratteristiche”. Sappiamo benissimo che non solo i vegetali sono preposti per tale trattamento di conservazione, per cui si può definire tale anche qualunque alimento avente altra origine, ad esempio, animale. In pratica, grazie a specifici trattamenti, questi alimenti possono conservare per tempo, più o meno lungo, le intrinseche caratteristiche peculiari, in quanto ne rallentano le alterazioni microbiche.
E’ basilare e importantissimo far presente che la “conserva” è da considerarsi tale fino a quando permangono le argomentazioni per stabilità igienica di cui sono determinanti vari parametri: corrette tecniche di produzione, ideali condizioni di conservazioni, caratteristiche compositive dell’alimento in trattamento e l’efficienza dell’ermeticità ed igienicità del contenitore.
Le verdure e gli ortaggi conservati, nello specifico, sono quelli maggiormente trattati, per cui più ampiamente presenti sul mercato.
Le principali, nonché fattibili procedure di conservazione, sono sottolio, sottaceto, agrodolce e sotto sale, che interagendo sullo sviluppo e crescita di alcune famiglie di microrganismi, ne rallentano o addirittura inibiscono il proliferarsi ed un eventuale esteso sviluppo.
Numerosi e molteplici sono i generi che compongono il mercato degli ortaggi e delle verdure conservate.
E’ preferibile iniziare la lavorazione con ingredienti rigorosamente freschi e in ottimo stato, in modo tale da ottenere un prodotto finale con inalterate caratteristiche nutrizionali, organolettiche, tipicità e, in alcuni specifici casi, la territorialità della materia prima: per tali considerazioni, è fondamentale la qualità della derrata da lavorare.
   Non applicare trattamenti aggiuntivi quali pastorizzazione e sterilizzazione, è la scelta più delicata e rischiosa, poiché il processo produttivo delle conserve è diversificato da una radicata complessità in ogni singola fase. Tale complessità è vincolata a innumerevoli fattori riguardanti anche l’arrivo simultaneo nello stabilimento delle diverse tipologie di verdure: lo stoccaggio, le giuste quantità di acquisti e la difficile valutazione dell’imprevedibilità dell’andamento stagionale che può incidere notevolmente sulle caratteristiche del raccolto destinato alla lavorazione, pertanto ogni fase operativa diventa un momento critico in cui tutte queste variabili devono essere tenute rigorosamente sotto controllo e costantemente monitorate.
   In alternativa, la nostra conserva può essere preparata partendo da ingredienti semilavorati quali piselli al vapore, peperoni, pomodori, zucchine, melanzane grigliate o altre materie prime che hanno subito un iniziale trattamento preventivo: tutto questo, purtroppo, influisce notevolmente sulla durata del periodo di conservazione.
Negli ultimi anni si sono sempre più affermati preparati dalla complessa preparazione: le giardiniere come antipasto, i condipasta o i condiriso, destinati a una sempre maggiore richiesta di mercato.
MERCATO 2014 - [Fonte dati I.R.I. Aprile 2016]
Un leggero incremento inerente ai prezzi di sottaceti e sottolio [+3,32%] e a riguardo degli ortaggi conservati [+2,56%]: questa tendenza non ha inciso su un calo delle vendite, anzi, si è verificato un leggero incremento [+2,65%] ad unità, e del +4,53% riferito al valore.
Il consumo è legato alla stagionalità e si evidenzia maggiormente durante la bella stagione e i mesi più caldi, particolarmente per i prodotti sottaceto.

La dinamicità dei segmenti sottoli e delle conserve pone in evidenza una quota di mercato, pur se limitata, destinata a una rapida crescita.

martedì 5 luglio 2016

AGROALIMENTARE TRA TRADIZIONE E INNOVAZIONI

AGROALIMENTARE TRA TRADIZIONE E INNOVAZIONI
- ETICHETTATURA DEI PRODOTTI -
   Sin dall’inizio della sua costituzione, tra i principali obiettivi della Comunità Europea, vi è stata la libera circolazione delle merci e la sicura tutela del consumatore.
La necessità di garantire il raggiungimento di tali obiettivi ha fatto si che il legislatore comunitario sia intervenuto a disciplinare in maniera decisa e puntuale la produzione e la relativa commercializzazione di alcune merci ritenute di particolare impatto sulla salute del consumatore, per cui nell’ambito di tale regolamentazione sono contenute ed enunciate precise prescrizioni sulla corretta etichettatura dei prodotti.
Questo dovuto all’obbligo di una etichettatura completa, corretta, conforme ed uniforme sull’intero territorio comunitario che garantisce al consumatore una corretta informazione, in quanto tutti i produttori sono sottoposti alla medesima disciplina, inoltre, agevola la libera circolazione delle merci per una piena consapevolezza nella scelta del prodotto da acquistare.
Le prescrizioni in materia di etichettatura dei prodotti agroalimentari, nello specifico, hanno acquisito una notevole e fattiva rilevanza non soltanto nell’ambito della legislazione del prodotto stesso, ma anche in altri settori.
   Nel dettaglio, è il caso della responsabilità da prodotto difettoso, in cui la DIR. 85/374/CEE prevede che la difettosità veritiera e riscontrata del prodotto (perciò risulta essere corretto e logico il presupposto per un’eventuale risarcimento) si verifica anche all’etichetta stessa e delle indicazioni d’uso (art. 6 della sopraccitata Direttiva): “Un prodotto è difettoso quando non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze, tra cui: a) la presentazione del prodotto; b) l’uso al quale il prodotto può essere ragionevolmente destinato”.
   Ugualmente in ambito pubblicitario e di pratiche commerciali sleali (DIR.84/450/CEE recentemente modificata nella DIR. 2005/29/CEE relativa sempre alle pratiche commerciali sleali) nell’art. 6 della suddetta nuova direttiva, che “È’ considerata ingannevole una pratica commerciale che contenga informazioni false e sia non veritiera o in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, inganni o possa ingannare il consumatore medio: anche un’etichettatura non corretta, per cui ingannevole, può essere configurata come pratica commerciale sleale”.
Inoltre, sempre in materia di sicurezza generale dei prodotti, la DIR. 2001/95/CEE stabilisce che “Un prodotto è sicuro ove in condizioni di uso normali o ragionevolmente prevedibili, non presenti alcun rischio oppure presenti unicamente rischi minimi, in funzione di alcuni elementi tra la presentazione del prodotto, la sua etichettatura, le eventuali avvertenze e le istruzioni per un uso corretto”.
DISCIPLINA RELATIVA ALL’ETICHETTATURA LEGATA ALL’ORIGINE E AL METODO DI ELABORAZIONE O PRODUZIONE
- Specialità tradizionali garantite
- Protezione indicazione d’origine
- Prodotti biologici
- Etichetta biologica
OGM
- Tracciabilità ed etichettatura OGM
ALLERGENI
- Etichetta nutrizionale
- Dichiarazioni nutrizionali
- (caffè, cicoria, caffeina, chinina)
ALIMENTI PER NEONATI E BAMBINI
ALIMENTAZIONI SPECIFICHE
- Alimentazione particolare
- Diete ipocaloriche
- Alimenti per fini medici
- Integratori alimentari
- Alimenti con aggiunta di vitamine, minerali
DIRETTIVA 2000/13/CEE
   Tale normativa si applica ai prodotti alimentari pre imballati destinati ad essere consegnati in tale stato al consumatore finale. Non riguarda i prodotti destinati ad essere esportati esternamente alla Comunità Europea.
Determinante e fondamentale è che l’etichettatura, la presentazione e la pubblicità dei prodotti alimentari non possono essere tali da:
a - indurre l’acquirente in errore sulle caratteristiche o sugli effetti di tali prodotti alimentari;
b - attribuire ad un prodotto alimentare delle proprietà di prevenzione, di trattamento e di cura di una malattia umana.
La disciplina è ancora più esplicita e chiara in quanto precisa che non è consentito indurre in errore l’acquirente su alcuni particolari aspetti del prodotto quali, la natura, la sua identità, la qualità, la composizione e la sua quantità, la sua conservazione, la sua origine o provenienza e la sua produzione.
Inoltre, la suddetta direttiva stabilisce che nel concetto di etichettatura sono comprese tutte le menzioni, indicazioni, marchi di fabbrica e di commercio, di immagini e simboli.
Per quanto concerne la presentazione, è la forma o l’aspetto, il materiale utilizzato, il modo di esposizione sui banchi di vendita, l’ambiente in cui sono esposti i prodotti.
La pubblicità è invece ogni messaggio avente scopo promozionale (DIR. 84/450/CEE).
La direttiva obbliga poi ad inserire nell’etichettatura delle indicazioni obbligatorie, tra cui:
- Denominazione di vendita
- Elenco ingredienti
- Quantità netta
- Termine minimo di conservazione
- Nome/Ragione sociale/Marchio depositato/Sede del fabbricante/Confezionatore/Venditore stabilito nella comunità
- Sede stabilimento produzione
- Titolo alcolometrico volumico
- Dicitura lotto di appartenenza
- Modalità di conservazione o utilizzazione
- Istruzioni per l’uso
- Quantità di taluni ingredienti
- LUOGO DI ORIGINE O PROVENIENZA OVE L’OMISSIONE POSSA INDURRE IN ERRORE

Questa direttiva è stata recepita in Italia dall’applicazione del DLGS 181/2003 che ha modificato il precedente DLGS 109/1992.

lunedì 23 maggio 2016

LA PAROLA E' CIBO, CIBO E' PAROLA

La parola è cibo, cibo è parola
Uno non può pensare bene, amare bene, dormire bene, se non ha mangiato bene.
- Virginia Woolf -
   Forse fu Lessing a dire “ … che la vita è troppo breve per mangiare e bere male … ”
Stefano De Michele lo cita anonimamente in un bell'articolo dell'agosto 2012: “ A tavola con Dostoèvskij. Il bel mangiare ci salverà ”.
Come Oscar Farinetti, patron di Eataly, ha trasformato i quattro piani dell’Ostiense in un paradiso del cibo, nientemeno che “un orgasmo enogastronomico”. Orgasmo a parte, il cibo è indiscutibilmente al centro di molte arti: cinema, pittura, scultura, edilizia, architettura e letteratura. Cultura e business perché, come ci ha insegnato l’EXPO' di Milano, il “cibo è vita”, e come ci dice M. Caparròs, anche la sua mancanza, la fame, è business.
A noi qui interessa vedere il nesso tra parola e cibo che non solo si accomunano per l'oralità, il topos di riferimento iniziale, almeno, ma vogliamo dimostrare che per entrambi occorrono “buon gusto”, innanzitutto, e una “buona digestione”: altrimenti niente piacere e niente assimilazione.
   Questo spiega perché molti leggono libri senza capirne un solo rigo e molti mangiano senza assimilare, imbottiti preventivamente da preoccupazioni inerenti il non dover ingrassare e imbottiti di farmaci atti a impedire l'assimilazione. Che dire, contraddizioni dei tempi moderni: leggere per non capire, mangiare per non assimilare. Forme, dunque, di atletismi malati ed è come scegliere di vivere una lunga vita ebete piuttosto di un'eroica, oggi, vita consapevole facendo lo slalom tra trigliceridi, colesterolo e la felicità. Avete mai notato, poi, che chi segue rigide alimentazioni basate su forti astinenze sono persone piene di astio, livore direi, verso chi mangia con gioia? E' nata una forma nuova di invidia che farebbe rigirare nella tomba i nostri padri e di cui parla il buon Enzo Bianchi nel suo libro “ Il pane di ieri ”.
   Simonetta Agnello Horby, conosciuta anni fa all’ormai già trentennale prestigioso Premio Chianti, con Maria Rosario Lazzati ha scritto un raffinato testo dal titolo “ La cucina del buon gusto” il quale esprime tutto il glamour di una signora di tradizioni siciliane accanto all'altra sua cittadinanza londinese ricca di humor. Doti, indubbiamente, non acquistabili se non attraverso l'esercizio costante dell'intelligenza di cui si può essere dotati, oppure no. Ma questa non è certo una rivelazione, bensì una pura constatazione, di cui gli idioti tornano a stupirsi costantemente: che mangino male? Chissà!
   Il 13 maggio 2016, a pag. 35 de Il Corriere della Sera, si apprende che “ … per apprezzare ancor di più menù letterari bisogna immaginare che a leggerlo sia, ad alta voce, l’autrice del libriccino, Céline Girard”. Parigina, classe 1980, laureata a Firenze in letteratura italiana e dotata di una «interminabile» erre moscia, come ha raccontato Silvia Columbano, editor della casa editrice Franco Cesati e curatrice della collana Ciliegie, capace di ingentilire, trasformare in seta qualunque parola. «Desideravo che leggere menù letterari fosse come quella sera a cena, ha detto la Columbano, in cui Céline mi aveva parlato di Hemingway, di letteratura, di viaggi, di cucina: frammenti di racconto, vita, libri, cibo, pensieri, luoghi i cui fili si confondessero, si mescolassero facendo venire voglia di leggere a chi non è un appassionato di libri; a chi cucina, di preparare un menù diverso in cui gli ingredienti principali fossero prima le parole, e poi i piatti. E che a tutti venisse una gran fame»”.
Dunque benvenuto a questo nuovo libro di cucina letteraria che va a infoltire la foresta intricata, tra erbe buone ed erbe amare, uscito il 19 maggio, dell'editoria enogastronomica.
   Invece un giovane allievo dell'istituto alberghiero dove insegno, Federico, ottimo in cucina e anche discreto intellettuale, che sta per affrontare l'esame di stato, mi auguro con buon successo, si è incuriosito di Dostoèvskij e il cibo. Eppure sono così presi a parlare i suoi personaggi e Dostoevskij a pensare parole, poiché queste sono l'archetipo della cultura e il grande autore russo ne è buon padre forgiatore, che non li immaginiamo intenti al consumo di pasti. Invece, mi dice Federico che si è ben documentato, questa pratica avviene e con una liturgia significativa, ancora una volta legando parola e cibo.
Le testimonianze di parenti e amici sulle abitudini culinarie dello scrittore sono raccontate nel libro di Pavel Fokin, “ Dostoèvskij senza lustro ”, e ci mostrano un uomo goloso e dal palato eccentrico.
   Al risveglio, pane e vodka, a pranzo piatti popolari a quel tempo a Pietroburgo:   moskovskaya solyanka, una godereccia zuppa piuttosto grassa fatta con brodo, salsiccia tagliata a pezzetti, cavolo e cetrioli in salamoia, le scaloppine di vitello, filetto di vitello in crosta; rasstegai, pantagruelico pasticcio al forno con un’apertura superiore con diversi tipi di ripieni e vari timballi vegetariani farciti di piselli, rape, funghi in salamoia e altro ancora”.
Cos'altro ancora? Se era di buon umore, il nostro Fedor preferiva alimenti come formaggio, noci, arance, limone, funghi sanguinelli, caviale e senape. Prima di farvi venire l’acquolina in bocca, sappiate che dovrete accompagnare il pollo bollito con del latte caldo e prima del dessert sarete costretti a bere un bicchierino di cognac per favorire la digestione. Ma se il Maestro era preso dallo spleen, anche l'alimentazione cambiava: una tazza di brodo, scaloppine di vitello, tea e vino. Beveva nel pomeriggio tea nero molto forte con due zollette di zucchero, secondo un lungo e un tantino nevrotico rituale. Oltre al tea nero, fra un pasto e l’altro frutti di bosco, datteri, noci, uvetta, marmellata, prugne reali e perfino uva fresca.
   Ricordiamo che il cibo e la parola sono fonte di potere. In quasi sei secoli, la scrittura ha dimostrato di essere strumento di potere politico-culturale, il più importante nelle mani della chiesa ieri e delle grandi testate oggi, rette dalla sfera politica proprio come il cibo-energia e vita. La scrittura, la parola, cura, così il cibo: questo pensavano Anton Cechov e Mario Tobino, Ronald Laing e Oliver Sacks.
Il cibo e la scrittura possono pacificare, essere strumento di pace. Lo pensavano Tolstòj e Gandhi.
Quindi la scrittura e la parola, come il cibo, sono strumento e meta per la presa di coscienza delle aporie della realtà: scienza-letteratura, malattia-salute, pace-guerra, religione, se osservata, o ateismo, non osservante, assimilazione-impermeabilità, cura-incuria e potremmo andare avanti all'infinito, forse …
   Moravia termina la sua vita dedicandole l'ultimo decennio alla lotta contro il nucleare e gli servì a colmare un vuoto d'azione “politica”. Certamente un luogo della parola e della lotta attraverso la scrittura, ma qui il cibo si perde: davvero? E chi mangerebbe, consapevolmente, il sushi contaminato dall'ultimo disastro nucleare in Giappone?
   Bene, dunque, come Moravia vogliamo dedicarci nei prossimi decenni a parlare bene, scrivere meglio e a mangiare egregiamente, partendo da aria-terra-acqua degni di trasformarsi in cibo.
Buona vita ai nostri lettori.

Lorella Rotondi


martedì 3 maggio 2016

REPORTAGE SULL'ALTERNATIVA SCUOLA-LAVORO

Reportage sull'alternanza scuola-lavoro: punti di forza e criticità.
Suggerisci possibili miglioramenti
   Quest'anno si è resa necessaria un'opportuna riflessione sull'alternanza scuola-lavoro vista la LEGGE n° 107 del 13 luglio 2015. La scuola professionale e gli istituti tecnici italiani hanno da sempre viste inserite nei piani dell'offerta formativa ore di stage. La grande novità ha piuttosto investito i licei. Può essere interessante dare direttamente la parola sull'argomento a una studentessa al secondo anno di scuola secondaria di secondo grado, biennio unificato dell'Istituto Alberghiero “A. Saffi” di Firenze, Chiara Bartoloni, appena rientrata dalla sua prima esperienza di stage lavorativo.
La voce di Chiara è quella dell'intera classe e forse di molti altri giovani desiderosi di apprendere fuori dalle aule e consapevoli che l'aspetto operativo è in grado di motivare anche quello teorico, così presente in molte fasi del loro lavoro di domani.
Lorella Rotondi
Lavoro: “applicazione di un'energia - umana, animale o meccanica -, al conseguimento di un fine determinato”.
Scuola: “luogo di apprendimento che implica l'applicazione di un'energia mentale al conseguimento di un diploma e soprattutto di conoscenze”.
Cosa c'entra quindi la scuola col lavoro e viceversa?
   Già nel 2005 con il Dlgs 717 l'alternanza scuola/lavoro rappresenta “una metodologia didattica”. Nelle finalità dell'articolo 1 delle nuove direttive ministeriali, 107/15, si rende noto che “l'alternativa scuola/lavoro è uno strumento che offre a tutti gli studenti della scuola secondaria di II° grado l'opportunità di apprendere mediante esperienze didattiche in ambienti lavorativi privati, pubblici e del terziario“.
Le scuole professionali erano già avviate a questa nuova metodologia di apprendimento, infatti, la novità si è presentata con il coinvolgimento che licei, istituti che se non fosse per le due ore di educazione fisica, sarebbero completamente teoriche.
   Le classi seconde dell'Istituto XY di TZ, tra cui la sottoscritta, quest'anno hanno potuto approcciare con il vasto mondo del lavoro e rendersi conto di cosa sarebbero andati incontro negli anni successivi, specialmente dopo il diploma. E' stata un'esperienza veramente costruttiva, soprattutto perché i giovani lavoratori si sono potuti confrontare con adulti già avviati in quel campo e con gli esterni. Si sono potuti ambientare in uno spazio, che apparentemente poteva sembrare uguale ai laboratori della propria scuola, ma che con la scuola aveva in comune solo la convenzione lavorativa. Sono ambienti diversi, approcci diversi, perché ogni azione effettuata, pur essendo microscopica, si ripercuote negativamente o positivamente sull'azienda. In questa settimana nasce il senso della responsabilità lavorativa.
   Ma come si può sviluppare una capacità fondamentale per un lavoratore in una sola settimana di stage? Trentasei ore suddivise in un totale di sei giorni è una realtà quasi impossibile e pesante per uno studente di 15-16 anni abituato a quelle due-quattro ore di laboratorio a scuola, che non rispettano per nulla i veri ritmi lavorativi vissuti nella settimana di alternanza scuola-lavoro. Il problema, non è solo la corta durata dello stage, ma anche la poca preparazione del personale della struttura per assistere lo stagista. Spesso si trovano in difficoltà perché non hanno la minima idea di cosa poter far fare ai giovani studenti-lavoratori per insegnare loro anche solo qualche piccola mansione o i comportamenti base. Secondo alcune esperienze, è capitato che dopo la “la temporanea assunzione” dello studente, i tutor, nonché responsabili del settore, si trovano obbligati dal contratto che loro stessi avevano firmato, a spiegare il lavoro allo stagista, ma tutto ciò sbuffando e spazientendo.
La mia scuola, pur avendo poche ore di laboratorio, ha la bellissima opportunità di gestire una cucina che prepara i piatti per il loro bar interno, un bar appunto e una portineria. Questi tre spazi potrebbero essere “ sfruttati” dalla classi prime come avviamento allo stage e come idea di scelta del settore futuro, per una breve permanenza di 314 giorni. Comunque, anche non avendo avuto questa possibilità, le seconde del XY hanno affermato che le ore di laboratorio effettuate in questi due anni, sono abbastanza sufficienti per trascorre il periodo di stage con le giuste basi. E' stato dimostrato dai giovani stagisti , che hanno imparato più nella settimana lavorativa che nel biennio comune.
L'alternanza scuola-lavoro non aiuta a crescere solo la lista delle esperienze nel curriculum, ma aiuta a crescere anche mentalmente e a responsabilizzarsi. E' un'esperienza formativa in tutti i campi. Aiuta a rapportarsi con le persone straniere, aiuta a tornare a scuola con qualcosa in più nel proprio bagaglio personale, aiuta a comportarsi in tutte le situazioni possibili e a sviluppare l'etica personale.
Quindi possiamo definire l'alternanza scuola-lavoro come “applicazione di un'energia, sia umana, animale o meccanica e sia mentale, al conseguimento di un fine determinato: conoscenze di tipo lavorativo e umano.”
Con questa legge, quindi, possiamo affermare che ogni tanto l'Italia cerca di aiutare i giovani nel settore del lavoro.

Chiara Bortoloni

mercoledì 30 marzo 2016

FASTING ...

FASTING …
   Solitamente parliamo di “banchetti”. Lo faremo anche oggi perché il ricordo da cui parte la mia riflessione è proprio da due magnifici banchetti: uno a base di pesce e l'altro un menù d'autunno.
Entrambi furono organizzati per Don Luca: una volta entrava come parroco della nostra cittadina, una volta ne usciva. In entrambi i casi fu festa, perché quando si amano delle persone si vuole il meglio per loro e che andare o venire poco conta.
Nel primo caso si era ospiti di Cecilia, un'amica comune. La bontà della serata venne dalla compagnia, dalla bene- dicenza - rara ai banchetti e dalla freschezza del pesce che Cecilia stessa cucinò semplicemente e quindi benissimo. La bontà è tale già cruda. Il pesce si accompagna al buon olio, a poco aglio, a limone o pomodoro fresco. Un po' di vino bianco tranquillo, prodotto in Chianti in parsimonia: fu un'ottima serata.
   Anni dopo Don Luca si sentì male, benché giovane. Io, che lo sono più di lui, già mi ero sentita poco bene sempre a seguito dello stress, come oggi diagnosticano con buona probabilità di centrare la diagnosi molti medici assai rapidamente e molto superficialmente. Lasciai la mia sede di lavoro e terminato l’incarico amministrativo mi trasferii: Don Luca fece lo stesso.
La Comunità nell'autunno seguente organizzò una cena d'autunno che ci riunì nuovamente.
Ormai ristabiliti partecipammo insieme a molti altri. La direzione del pranzo fu affidata a una parrocchiana diplomata all'Alberghiero e il servizio fu impeccabile: tavola decorata con bacche rosse su toni di verde, l’arancio e marrone ricercati dai piatti ai tovaglioli di carta con un dolce al cucchiaio servito in una ninfea di carta che celava il contenitore in alluminio, realizzata con le sue mani e dai giovani collaboratori; zucche, castagne e profumi d'autunno aprirono e conclusero il pranzo.
Cecilia questa volta era a collaborare in cucina insieme al marito, Fabrizio, diretti dalla Signora Congiu.
Perché ricordo queste persone e queste occasioni di banchetto oggi? Perché penso all'animalità dell'uomo: "Che il Cibo sia la Tua medicina, e che la Medicina sia il Tuo cibo" diceva Ippocrate ed è naturale nella festa banchettare, nel dolore digiunare ... Ci sono tanto il riso, energia, piacere e gioia nel primo, quanto silenzio, rallentamento, riflessione, forza interiore nel secondo.
Don Luca, Cecilia, Fabrizio e io, per citare solo alcuni di quei banchetti, siamo gli stessi che dal 20 marzo si sono saziati di dolore. Il cibo è diventato “ medicina” e senso di colpa per metterlo in bocca senza gusto e con nessuna voglia.
Cecilia e Fabrizio sono fra i genitori che sono andati in Spagna a prendere le spoglie della giovane figlia, Lucrezia, morta a causa dell'incidente avuto col pullman dell'Erasmus. Conosceva le lingue molto bene. Avrebbe vissuto a N.Y. Era fidanzata. Insegnava catechismo e nel 2013 era stata in Terra Santa. Mangiava, a differenza di molte giovani, ed era sempre in movimento perché attenta alla cura della sua persona. Inutile dire che era bellissima oltre che brava ...
   Tutti hanno notato in televisione e sui giornali quanto fossero tutte belle e brave. Il punto è abituarsi a “fare digiuno di lei”, tornare al senso della festa senza di lei. Prima non l'ho nominata mai, eppure c'era, altrimenti non sarebbe stata festa. Oggi, dunque, volevo essere vicina a tutti i nostri lettori che si trovano a trascorrere le feste, mangiando amaro: intorno, giustamente!, la vita continua, ma chi è toccato così profondamente non sa da che parte rifarsi. Bene dove ci sono dei giovani che con un realismo tutto concreto ti spingono alla necessità di rientrare nel quotidiano, a riaffrontare la successione del tempo che non si è fermato per tutti, ma per la nostra Lucrezia sì. La pensi, allora, seme a dischiudersi sotto la terra nera che offende sempre sulle giovani vite spezzate, ma poi ricordi che terra in greco è ghe. Se lo ripeti dieci, venti volte, scopri che è il verso di ogni essere appena nato: chiama per nome la prima madre, la terra, terra madre. Allora pensi che Lucrezia è accoccolata nel palmo di Dio Padre e nel ventre della Terra Madre. Scopri che è lei a banchettare nell'alto dei cieli in piena letizia, perché quando si amano delle persone si vuole il meglio per loro e che sia andare o venire poco conta.
Ci ha solo preceduti, e che non ci deve essere colpa ad avvicinarci nuovamente alla tavola.
Il CIBO deve ora sostenerci per il viaggio che questa vita è per ognuno di noi e bisogna riunirci in letizia per lei.
   E allora vorrei che di noi si dicesse “Folli sono questi cristiani che cantano e ballano quando un fratello muore! ”, proprio come si diceva dei primi cristiani, hanno tutti cantato e ballato, folli per il dolore della perdita e lieti di pensare Lucrezia accoccolata nel palmo del Padre … ”

Lorella Rotondi

domenica 6 marzo 2016

TOSCOLATA, OVVERO ... CIOCCOLATA CON LA TOSCANA NEL CUORE!!!

TOSCOLATA, ovvero … cioccolata con la Toscana nel cuore!!!
   Nata dal progetto di Invalsa CNR con le Università di Siena, Pisa e Sant'Anna di prodotti tracciabili e biologici con la sperimentazione su effetti benefici per persone con rischio cardiovascolare.
   C'è cioccolato e cioccolato: a filiera corta e toscano tracciabile per qualità, ci strizza l'occhio e lo preferiamo. Così può iniziare la mattinata in Via Albizzi 11 da VESTRI: La Toscolata, made AR, è finalmente all'assaggio, pronta per la vendita e la messa sul mercato. La mattinata è grigia, ma incredibilmente questo prodotto dolciario ha il potere, come pochi, di portare calore e il sole della Repubblica Domenicana, da dove arriva la materia prima, fino ad Arezzo, per unirsi in lavorazione anche all'olio extravergine d'oliva toscano, oppure alla farina di castagna, oppure, ancora alla mela rossa “Panaia”. Tutti prodotti antichi e rintracciabili toscani che, con la loro tipicità, fanno della Toscolata un prodotto unico e tipico, per giunta buonissimo, poiché derivato da selezioni accurate, non solo per il piacere di gustare cioccolato, ma per la salubrità del mangiare “IL” cioccolato.
Quaranta grammi di cioccolato al giorno è stata offerta a un campione di trenta soggetti per tre mesi, seguendo il protocollo sperimentale. I medici di tutoraggio hanno osservato che l'assunzione di Toscolata ha fatto diminuire i fattori di rischio cardiovascolare e che si possono evitare la formazione della placca aterosclerotica, responsabile di infarto, ictus, ischemie periferiche.
A spiegarlo , mentre dai vassoi viene offerto questa bontà divina, è la Dottoressa Rossella Di Stefano dell'Università di Pisa, che coordina la sperimentazione clinica: “ … gli effetti benefici del cioccolato sono legati principalmente alla buona attività antinfiammatoria, ma il cioccolato deve essere fondente e di elevata qualità come quello di Toscolata, affinché ne siano preservate le proprietà nutraceutiche … ”
Inoltre, il cioccolato viene qui associato alle proprietà antiossidanti o dell'olio extravergine d'oliva toscano o della mela “Panaia” rossa tipica del Casentino o della farina di castagna dell'Amiata: una bella “squadra”di prodotti toscani del cui beneficio si potrà dire solo in ottobre, alla fine della sperimentazione sui volontari selezionati.
   La ricetta di questa cioccolata “made in Tuscany” è stata messa a punto durante il progetto omonimo coordinato dall’Istituto per la valorizzazione del legno e delle specie arboree (IVALSA) del CNR, con la partecipazione delle Università di Siena, di Pisa, dell’Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, grazie al finanziamento ottenuto tramite un bando della Regione Toscana e con il patrocinio dei Comuni Montani del Casentino (Arezzo), della Società di Ortoflorofrutticultura Italiana (SOI), della Provincia di Siena, del Vivaio forestale “Il Campino”. Presente all'evento il Presidente della Seconda commissione della Regione Toscana “Sviluppo economico e rurale, cultura, istruzione, formazione”, Gianni Anselmi che intervenendo ha sostenuto “ … la bontà dell'iniziativa che se non nasce certamente in opposizione a linee europee talora discutibili, segue la linea coerente di un'identità e tradizione di tutto rispetto dell'alta qualità toscana a tavola nell'agroalimentare e nel recupero di prodotti tipici e storici che altrimenti scomparirebbero e con loro un pezzo importante di Toscana … “
   “Lo Stravizzo della cioccolata” si rinnova con la Cioccolateria Vestri e per Via Albizzi si ritrova il gusto che fu all'Accademia della Crusca quando si celebrò, a Firenze il 12 settembre 1666 con Francesco Redi e Lorenzo Magalotti, il cioccolato. Il “ … segaligno e freddoloso Redi … ”, medico di corte dei Granduchi di Toscana, intellettuale poliedrico e Lorenzo Magalotti, “ … aretino che pare il ritratto della fame … ”, scienziato e letterato al servizio dei Granduchi di Toscana e Accademico illustre del Cimento e della Crusca, furono protagonisti della cultura della cioccolata che, avviata a Roma dai padri Gesuiti e “ingentilita” dalla “squisitezza” toscana, finì per diventare una moda europea: una passione irresistibile dal Barocco a oggi.
Dalle rotte esotiche del centro America, il cioccolato arrivava in Toscana regolarmente e in gran quantità nelle case illustri e il Granduca Cosimo III° stesso voleva fabbricarlo con Redi e Vincenzo Sandrini nella Spezieria, introducendo altri e raffinati ingredienti. Gli stessi che oggi Vestri ci offre? No, ognuno vive col cioccolato la propria avventura, il proprio viaggio e il personale momento in quanto in comune hanno la passione per questo nobile prodotto che ha in sé storia e cultura. Ci vuole occhio per la qualità e per la bontà; Daniele Vestri disse “ … nessuna economia su questi ingredienti, a costo di fallire nell'impresa!”
Questa filosofia porta la famiglia Vestri ad acquistare nel 2002 una piantagione nella Repubblica Domenicana per meglio seguire dalla “pianta alla tavoletta” di cioccolato. è da questo amore e sapienza che nasce la Toscolata …

Lorella Rotondi

venerdì 5 febbraio 2016

Rubrica "SCRITTO DA VOI!!!"

SCRITTO DA VOI, amici gastronauti!!!
   Un caro e sincero invito agli“amici gastronauti” che ci vengono a trovare sul sito e se anche Voi avete storie, aneddoti, curiosità, ricette ed altro ancora dell’immenso mondo dell’enogastronomia, siete gentilmente pregati, se avete piacere, di inviarceli all’indirizzo – enotia@virgilio.it –
Saranno attentamente vagliati e se interessanti e piacevoli, fattore che non si dubita assolutamente, saranno pubblicati col nome dell’autore, nella vostra rubrica, appunto:
SCRITTO DA VOI, amici gastronauti!!!
Grazie di quanto amici cari, aspettiamo le“vostre personali” avventure, esperienze bacchiche e quanto altro, del meraviglioso mondo dell’enologia, gastronomia, alimentare e storicità ed altre infinite curiosità.


   Un sincero GRAZIE ai cari amici gastronauti che hanno inviato curiosità, aneddoti e tanto altro ancora di piacevole riguardante l’immenso e gradevolissimo mondo dell’enogastronomia: dai grandi vini, agli alimenti utilizzati per semplici e simpatiche portate, o per la grande cucina, non solo dell’italico paese, internazionali.
Un caloroso benvenuto a colei che, per prima, ha inviato la personale stesura, dando l’avvio alla suddetta rubrica: alla cara amica LORELLA ROTONDI  il piacere di essere il numero 1!!!
Aspettiamo ancora numerosi e simpatici scritti che tutti voi, cari gastronauti, vorrete inviarci.
Sottostante, il testo, interessante e piacevole, con cui Lorella ha aperto questa seducente collaborazione con tutti voi: grazie ancora!!!
 “Buhaioli c'è le paste!”
Ovvero: la Firenze di un tempo
   L'espressione più accreditata si riferisce ai cavatori di rena dal letto dell'Arno. Una lunga pala, forse di cinque metri, era l'attrezzo da lavoro; un lungo palo ficcato nel fondale consentiva l'ancoraggio nel punto da scavare; una piccola chiatta portava il “renaiuolo” nel punto dell'Arno da cui cavare gli inerti per l'edilizia.
Va da sé che il lavoro era ingrato in qualsiasi stagione, pertanto necessitava di almeno due gratificazioni: il pasto, che oggi diremmo ipercalorico e di un arrotondamento economico, in quanto l'uno e l'altro entrano autorevolmente nel campo enogastronomico.
Il pasto consisteva solitamente nelle paste al pomodoro, seguite da panzanella di cipolle tagliate sottili con pane raffermo bagnato nell'aceto e acqua, con olio, sale, pepe e un bel fiasco dell’immancabile vino rosso. Le mogli, a turno, andavano a cuocere il pranzo in riva al fiume in una caldaia comune ed appena pronto, gridavano “Bucaioli c'è le paste!”. Uno passava a ritirare i compagni e scendevano a riva raramente senza la zucca svuotata e incatramata che usavano per pescare intanto che “bucavano” l'Arno. Solitamente, il pesce veniva lasciato alla donna che già aveva fissato la vendita a una trattoria sui lungarni o con la fantesca di qualche casa di signori per cavarsi un capriccio: insomma, con chicchessia, pur di arrotondare la magra paga quotidiana costata però tanta fatica.
Ma questa è solo una delle versioni che circolano tra i fiorentini.
   L'altra si riferisce alle buche in San Lorenzo: cosa sono? Oggi sono le botteghe antistanti l’omonima  Chiesa che fu teatro della famosa congiura de' Pazzi, quella con la facciata non finita, per intendersi. Ebbene, quelle buche, sotto il livello della strada, erano botteghe anche un tempo con artigiani del cuoio, tessuti, etc. A mezzogiorno passavano i carri con le vivande, la street-food di allora, che al grido “Buhaioli, c'è le paste” richiamavano i bottegai dai loro tuguri per un pasto rapido, gustoso e sostanzioso. Oltre alla pasta al pomodoro, c'era il lampredotto e salsa verde. Potevano esserci pane e trippa alla fiorentina oppure il “buho”, la poppa ... insomma il quinto quarto con l’onnipresente fiasco di vino rigorosamente rosso.
   Ci convince meno, ma molto meno, la terza versione che fa riferire l'espressione alla categoria degli stradini che tappavano le tante buche delle strade. Essendo comunali, poi ... a mangiare ci pensavano da sé, nel caso.
   Vero è, che “buhaioli” non è nata come parolaccia, mentre in tempi moderni ne hanno fatto un epiteto dispregiativo, un insulto gratuito che oltre a offendere la virilità della vittima, accende il termine anche di un'altra sfumatura prossima al dare del bastardo,  sicché è un doppio insulto in un solo termine: tipico della burlesca fiorentina!

Noi restiamo affezionati alla versione aneddotica ed enogastronomica popolare.

giovedì 4 febbraio 2016

UN DITTATORE VEGETARIANO NON E' MENO DITTATORE

Un dittatore vegetariano non è meno dittatore
di Lorella Rotondi
   < Con questo intenso e profondo scritto, la cara amica Lorella pone in evidenza una caratteristica delle innumerevoli e contorte intime personalità di un personaggio che ha fatto si che non solo l’Europa, ma il mondo intero, con oltre settantun milioni di vittime tra civili e militari, e per quasi sette anni, siano stati messi a ferro e fuoco.
Tale alimentazione vegetariana, in quanto rifiuto dell’aggressività della carne e amabilità verso il prossimo, sembrerebbe porre in evidenza, forse, che il dittatore sia un uomo pacifico e che detesti tutto ciò che l’aggressività stessa permette di manifestare, ma purtroppo la realtà storica di quegli anni bui e tempestosi hanno decisamente smentito e tramandate le innegabili conseguenze … [ndr. P.L.N.] >
   Leggendo Conversazioni di Hitler a tavola [Hitlers Tischgerspräche] - marzo 1942/2 agosto 1942” di Henry Picker, edito da RG, ci si fa un'idea ben precisa del dittatore tedesco, poiché si sa, è a tavola che si rivela l'uomo in quanto si sono fatte tante pagine di storia: alleanze, tradimenti, avvelenamenti … e ancora oggi, la tavola viene prima della piazza, del giornale, della notizia “depurata e adattata”  per i quotidiani.
Ma qui non si affronteranno pagine che comunque abbiamo gustato con sincero interesse storico riguardo al rapporto tra Hitler e i tedeschi all'estero, o il suo pensiero sull'avvenire dei popoli dell'est o le comunicazioni e problemi tecnici, o religione e razzismo o scienza, religione e chiesa.
In questo libro si entra nell'intimità di Hitler per cercare di comprendere la psicologia dell'uomo.
Henry Picker, che per alcuni mesi sostituì lo stenografo Heinrich Heim nelle funzioni di trascrittore, riporta fedelmente i discorsi e le conversazioni avute dal Führer durante i banchetti che ebbero luogo nei quartieri generali di Wolfsschanze e Werewolf e, come avverte nella prefazione, “ … non è il caso di giustificare o di condannare il significato di questa raccolta di documenti. Per poter giudicare i rivoluzionari della storia, occorrono tempo e distacco”.
< Corretta valutazione nella quasi la totalità degli interessati, ma il “caporale austriaco” aveva fatto conoscere i personali punti di vista già quando era un illustre e sconosciuto imbonitore quando teneva allegoriche riunioni nelle birrerie della disastrata e inflazionata Germania dell’immediato primo dopoguerra, con fiumi di birra, pessimi shnaps e grassi würstel, e non era ancora l’incontrastato e “soprannaturale” dittatore. [ndr. …] >
   Ci vogliamo interessare solo del pasto di Adolf che iniziava con zuppa di cavolfiori, razione fissa di pane con 20 g di burro e un po’ di formaggio fresco fatto col latte: non si sarebbe mai sognato di mangiare burro e formaggi chimici come dettano ora le direttive europee, e a fine pasto consumava un po' di un tonico per lo stomaco: forse aveva “capito” che non avrebbe mai portato a termine i personali sogni di gloria e grandezza e cominciava a soffrire di ulcera? Infine, volevo approfondire perché apprezzasse tanto il regime vegetariano ed è lui in persona a rispondermi, a pag. 219: “ E' evidente che un carnivoro come il cane è ben lontano dal fornire un rendimento paragonabile a quello del cavallo, che è erbivoro … ”, inoltre consiglia che gli alimenti “ … vanno consumati allo stato naturale … ”, mentre metteva sull'avviso i fumatori in quanto “ … fumavo dalle 25 alle 40 sigarette al giorno /.../. Buttai le mie sigarette nel Danubio e smisi definitivamente di fumare”, pag. 215.
Ritagliando il settore enogastronomico nel nostro testo in esame, si può affermare che ci sono personalità e sicura originalità nel sostenere pubblicamente un pensiero certamente inusuale all'epoca. Hitler sostiene la tesi della bontà del regime vegetariano contro gli scienziati scettici e che il beriberi e altre malattie si possono curare al massimo in otto giorni “ … grazie a un'alimentazione vegetale, e precisamente a base di bucce di patate crude”. Riguardo al fatto che i cibi non vadano cotti, Hitler lo sostiene osservando il comportamento della zanzara, della rana, della cicogna, tra loro in catena alimentare, ognuna ottiene il massimo potenziale nutritivo perché “ … un'alimentazione veramente razionale deve ispirarsi al principio che il cibo ha un più alto valore nutritivo se viene consumato allo stato naturale … ”. Tutti gli studi sulle vitamine dimostrano che il processo di cottura e di preparazione degli alimenti ne distrugge le componenti più preziose. Certo, la cottura non distrugge soltanto elementi nutritivi, ma anche i batteri.
Se oggi i nostri bambini sono tanto più sani di quelli della Germania imperiale o dell'immediato dopoguerra, ciò si deve anche al fatto che la maggioranza delle madri si è persuasa a nutrire i propri figli con vegetali crudi anziché con latte bollito.
   Altra autorevole fonte è Margot Woelk, una delle ultime sopravvissute del team di dodici persone che si dedicavano all’alimentazione del Führer.
La Woelk, 95 anni compiuti, ha aspettato tanti anni prima di rivelare questo piccolo segreto ai giornalisti: perché? Perché non si riusciva a immaginare un uomo non carnivoro, specie se capo di stato, specie se Hitler. Sin dal monachesimo, la carne rossa veniva limitata nel consumo, specie nella regola benedettina, per contenere al massimo il potenziale aggressivo che le si attribuiva: in questo caso, l'istinto aggressivo prescinde dall'alimentazione, dunque.
Era l’assaggiatrice ufficiale di Hitler, cioè l’incaricata di cibarsi dei suoi pasti esattamente un’ora prima che venissero serviti nel quartier generale del partito nazionalsocialista in Polonia, la Tana sul Lupo
La Woelk, assaggiatrice per oltre due anni e mezzo dei menû di Hitler, precisamente dal 1941 al 1944, non ha dubbi e conferma che “ … era completamente vegetariano, mangiava le cose più deliziose e fresche, dagli asparagi, ai peperoni, ai piselli, serviti con riso e insalate. Era tutto organizzato su un piatto. Non c’era carne e non mi ricordo di aver mai visto pesce ”.
   Secondo alcuni altri storici, soprattutto Spencer, Hitler divenne vegetariano dopo la morte Geli Raubal, nipote-amante, settembre 1931, perché la carne gli “ricordava” il suo cadavere: sensazione decisamente macabra e poneva già in evidenza l’intima e particolare personalità.
Sulla figura dell’amante-nipote appunto, nel Terzo Reich aleggiò sempre un alone di sacralità e mistero voluto da Hitler in nome del suo amore spezzato. Hitler e il suo rapporto col cibo sfiora, come per tutti, il suo rapporto con la vita, con la passione vitale. Ebbe certamente dimestichezza con la morte che immaginava “bianca” come la neve, tant’è che apprezzava infatti, che i giapponesi e cinesi si vestissero di bianco in segno di lutto, “ … durante il soggiorno nelle zone alpine, egli si sente a suo agio solo quando può osservare di lontano i nevai, questi sudari funebri … ”.

   Ma ebbe anche un intensa vita ricca di passioni per cultura, arte, bellezza, smodata smania di dominio: un dittatore vegetariano, non è meno dittatore …