sabato 8 dicembre 2018

LA PATATA DOP DI BOLOGNA


LA PATATA DOP DI BOLOGNA
   Chi non ha mai mangiato con estrema gioia e piacere una fragrante patatina fritta o ben rosolata al forno ricca di aromi, si ritenga punito e vada di corsa in castigo a meditare per non aver mai gustato un cibo così buono, stimolante e gratificante che solo madre natura ci poteva donare!!!
   La patata, insieme ai cereali è, a livello mondiale, alla base dell’alimentazione umana.
Originaria del centro America, all’epoca delle civiltà azteca ed inca, la patata, appartenente alla famiglia delle SOLANACEE - SOLANUM TUBEROSUM, era ampiamente coltivata in Perù, Cile, Bolivia, Equador e Messico.
In Europa, questo tubero fu introdotto nella seconda metà del XVI° sec dai “conquistadores spagnoli e portoghesi” e per quasi un secolo fu considerata una vera rarità. In Italia cominciò a farsi conoscere all’inizio del ‘600 prima in Toscana e Veneto, poi in tutto il centro-sud ed in Emilia Romagna, soprattutto nella provincia bolognese, avendo trovato una situazione pedoclimatica altamente ideale e diffondendosi dalle fertili pianure alle aree pedocollinari fino a quelle montane.
Il viaggio della patata, dall’arrivo dalle Americhe, fino alla completa diffusione agronomica ed utilizzazione alimentare, è stato irto di difficoltà, in quanto avversata per oltre un secolo come un “frutto del diavolo” poiché si sviluppa sotto terra. Inizialmente la pianta veniva coltivata per i bei fiori nei giardini del Re di Francia, ma fu grazie allo “Studiorum Bononiensis”, in quanto coltivata nell’Orto Botanico dell’Università già nel 1657 dal botanico Giacinto Ambrosiani che la descrisse come pianta medicamentosa ma non alimentare!
Fu nella seconda metà del XVIII° sec che Pietro Maria Bignani, agronomo e latifondista, sollecitò la struttura annonaria dell’allora governo di Bologna, la “Assonteria dell’Abbondanza”, a diffondere la coltura della patata a scopo alimentare: FINALMENTE!
Il passaggio delle truppe napoleoniche e, di seguito, gli eserciti di mezza Europa, convinsero gli agricoltori bolognesi a coltivare le patate per sfamare chi, senza complimenti razziava le dispense pretendendo cibo: le patate salvarono l’economia di non pochi coltivatori che nulla potevano contro l’arroganza e prepotenza degli armati di passaggio.
   Successivamente, nel XIX° sec, sia il Prof. Castri che l’agronomo Filippo Re, scrissero numerosi trattati sulla patata, ma fu il Cardinale Opizzoni che promosse e fece diffondere la coltura in tutta la provincia bolognese, finchè un altro importante personaggio del momento, Bignardi, che nella sua famosa opera di agronomia evidenzia come fossero stati necessari ben due secoli prima che la patata entrasse nelle abitudini culinarie dei bolognesi e degli italiani. Gli anni che seguirono il primo conflitto mondiale, nel bolognese si coltivavano già oltre 4900 ha e le produzioni migliori erano esportate in Francia, Svizzera e Germania.
Negli anni del boom economico con lo sviluppo della meccanizzazione e le invenzioni di attrezzature progettate sul “campo” da ingegnosi produttori locali, la patata ha sempre più migliorato le sue produzioni, tant’è che negli anni ’60 e ’70 si affermò nel territorio bolognese, unica in Europa, la varietà “PRIMURA”, selezionata in Olanda ed ottima per tutti gli usi di cucina. Conseguentemente, a metà degli anni ’70 fu fondata la prima, ed ancora unica, “Borsa Patata”, frequentata da produttori, commercianti e cooperatori, onde stabilirne i prezzi in campagna e nei magazzini sia di lavorazione che di confezionamento.
LA PIANTA
   La patata è una pianta perenne provvista di fusti sotterranei carnosi, tuberi, che costituiscono il prodotto commestibile. Sui fusti interrati si trovano le gemme, occhi di patate, che costituiscono la produzione del prodotto.
Le foglie sono di un bel colore verde vivo e brillante, imparipennate e glabre nella pagine superiore mentre le inferiori sono pelose; i fiori, anticamente coltivati per la semplice ma gradevole bellezza, sono riuniti a grappoli avente il calice verde formato da cinque sepali uniti che formano con cinque petali una corona bianca o rosea; il frutto è una bacca carnosa, prima verde e poi scura, tondeggiante, contenente numerosi piccoli semi appiattiti.
VARIETA’
- Buccia gialla - Pianta a ciclo annuale e presenta un apparato radicale molto sviluppato, che in condizioni ottimali, può raggiungere anche i due metri di profondità. Pur avendo un’ampia adattabilità, la patata trova le condizioni ottimali di sviluppo nei climi freschi e per quanto riguarda i terreni, i più adatti sono quelli sciolti e moderatamente acidi.
Le numerose varietà sono classificate in base alla tipologia di utilizzazione - se da industria o da consumo diretto -, alle caratteristiche dei tuberi - forma, colore, aspetto della buccia, colore della polpa - ed alla durata del ciclo.
Le coltivazioni a buccia gialla più diffuse in Italia, sono ‘monalisa, spunta, primura, agata, liseta, lutetia, arsy’.
- Buccia rossa - Pur avendo la buccia rossa, queste patate hanno la polpa gialla o addirittura paglierino chiaro.
Pianta a ciclo annuale, che presenta le stesse caratteristiche e coltivazione della precedente tipologia e medesime classificazioni di destinazioni.
Le qualità maggiormente coltivate sono ‘asterix, desirée, rubinia’.
- Novelle - Questa tipologia avente forma ovale o ovale-allungata, presenta una polpa giallo chiaro con sapore molto marcato. Stesse caratteristiche naturali e di destinazione al consumo delle precedenti tipologie, mentre varietà più diffuse sono ‘aminca, alcmaria, spunta, nicola’.
PROPRIETA’
Cento g edibile di patata contengono, mediamente, 83 kal, mentre il valore nutrizionale consiste nell’alto contenuto di glicidi e di vitamina C pari a 24 mg che però si riducono notevolmente se le patate vengono conservate a lungo. Inoltre, posseggono anche un alto contenuto di potassio, cromo, magnesio, fosforo e per le innate proprietà antifermentative sono utilizzate come antidiarroico.
Le patate a buccia rossa possiedono una polpa particolarmente solida da renderle ideali per la frittura: gli spicchi, infatti, durante la cottura, formano una sottile e delicata crosticina croccante che impedisce all’olio di penetrare all’interno dello spicchio stesso.
Data la particolare consistenza e composizione delle patate a polpa gialla che trattengono in maniera significativa l’umidità, sono le ideali per la cottura al forno, in padella, arrosto o lessate.
   Due importanti e diffuse associazioni di produttori, che raccolgono attorno a sé ben oltre duemila agricoltori, stanno a garanzia della qualità di un prodotto unico, in quanto la personale tipicità deriva da innumerevoli fattori quali, composizione organolettica del suolo, microclima, capacità produttiva legata all’innovazione ed alla tradizione. Ma i bolognesi hanno fatto ancora di più, considerando di non essere soli in Italia ed in Europa, oltre che nel mondo, hanno istituito un “Centro di Documentazione per la Patata” che, attraverso l’Osservatorio Nazionale a cadenza settimanale, tiene monitorato e diffonde le informazioni relative al mercato dei tuberi ed alla produzione locale, nazionale ed europea.
   Nel 2002, tramite le due Organizzazioni dei Produttori, nasce l’idea della PATATA DI BOLOGNA DOP.
La Denominazione d’Origine Protetta è uno dei più prestigiosi riconoscimenti della Comunità Europea per la produzione di elevatissime qualità, per cui, con decreto MIPAF del 15/06/2004 e Garantito dal Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali ai sensi dell’art. 10 del Reg. CE 510/06, questo prodotto ha ricevuto sia la protezione che il riconoscimento per la varietà “PRIMURA”.
“Primura”, la cui radice del nome sta per “eccellente” o per “prima di tutto”, infatti, è questa varietà che si è imposta da oltre trent’anni nella provincia di Bologna, sia per le qualità organolettiche e l’adattabilità per tutti gli usi in cucina, per cui deve possedere parametri ben definiti.
Forma prevalentemente ovale-allungata, piuttosto regolare, con presenza di gemme, occhi, superficiali e poco pronunciate; la buccia liscia ha tonalità chiara, mentre la polpa è consistente e dal colore tendente al giallo paglierino ed a volte è bianca. Il calibro dei tuberi è compreso tra 40 e 75 mm ed il periodo conservativo è medio-lungo.
La patata, per avvalersi della DOP, deve essere prodotta esclusivamente da aziende agricole situate nella provincia di Bologna, così pure per quanto riguarda il condizionamento e la trasformazione.
   La FAO - Food and Agriculture Organization - ha indetto il 2008 “Anno Internazionale della Patata”.

lunedì 11 giugno 2018

COLLI BOLOGNESI: TRADIZIONE DEL GUSTO


Colli Bolognesi: tradizione del gusto
   Per gli amanti del gusto e dei sapori antichi e genuini, vi è una strada da cui si consiglia di passare e dove sicuramente ci si potrà fermare, in quanto attratti anche dalle bellezze naturalistiche di una zona ancora poco visitata e minimamente esplorata.
Il territorio dei Colli Bolognesi di notevole interesse storico-culturale, archeologico e per l’elevata qualità dell’enogastronomia, è incorniciato da una lussureggiante vegetazione tipicamente pedemontana quali solari ginestre, produttivi castagni, lecci, profumate acacie, faggi e poderose querce, nonché dalla viva e ricca presenza faunistica come cervi, daini, volpi, timidi porcospini, arroganti e prepotenti cinghiali e dal maestoso volteggiare dei rapaci. A degna cornice di tanto raro e unico quadro, l’ordinata campagna che si contrappone al grigiore dei calanchi tipici del nostro paesaggio.
In questo panorama, riccamente caratterizzato da unicità e peculiarità naturali, si snoda la “Strada dei Vini e dei Sapori” che, nell’attraversare le colline bolognesi della valle del Samoggia e non solo, si può trovare il meglio dei prodotti enogastronomici tipici presso cordiali agriturismi o per una piacevole sosta ristoratrice, in trattorie dai dimenticati sapori e profumi, in operose fattorie, cantine dalle piacevoli ricchezze di Bacco e aziende agricole con i loro sempre graditissimi e genuini prodotti che madre terra permette di coltivare e naturalmente … assaggiare!
   Continuando a passeggiare sulle nostre splendide colline, i prodotti agroalimentari in cui ci possiamo soffermare a curiosare e perché no … acquistare, sono innumerevoli e tutti decisamente gradevoli e gustosi.
Tutte queste preziosità, sono immancabilmente “sposati” ai vini DOC  e al PIGNOLETTO DOCG dei Colli Bolognesi, sempre graditi e ricercati per tipicità e genuinità.
Italo Calvino diceva che “ … un territorio lo si può mangiare se lo si conosce … ” ed è appunto da quanto che parte lo spunto per far conoscere il nostro territorio e guidare il visitatore in una inusuale gita culturale ed enogastronomica.
   I notevoli prodotti agroalimentari racchiusi nello splendido scrigno naturale che sono i Colli Bolognesi, si possono identificare in alcune distinte categorie: frutta, pane,  maiale, parmigiano reggiano e l’immancabile vino.
Come si evince dal nome, la frutticoltura è uno dei settori più importanti dell’economia agricola di “Città Castelli Ciliegi”: un comprensorio che presenta la spiccata vocazione per ciliegie, susine e altra frutta tipica come mele, pere, pesche e albicocche.
Capitale indiscussa della frutticoltura è la vicina Vignola e tutta l’area confinante bolognese, nota e apprezzata per le sue ciliegie, che hanno raggiunto brillanti risultati nel campo delle tecniche di selezione, confezionamento e conservazione, oltre che per uniche ed ottime caratteristiche organolettiche quali sapore, colore e pezzatura. Così pure per le susine, in cui si sono adottate particolari cure nella coltivazione e selezione che vantano elevate peculiarità organolettiche e nutrizionali che le fanno apprezzare dai consumatori italiani e stranieri. Inoltre, da non dimenticare, anche i rinomati tartufi e i prodotti del sottobosco: dalle conserve ai prodotti sottolio e le erbe aromatiche e officinali per trattamenti di cosmesi e le preparazioni culinarie.
   Girovagando per questi incantevoli poggi, ci si può fermare a fare la spesa da un fornaio e si troverà non solo l’artigianale, tipica e rara pagnotta di Serravalle, ma anche tanti altri tipi di pane dalle innumerevoli forme e gusti, poiché ogni borgata e borgo arroccato, ha il “suo” pane che ne identifica l’originalità e unicità della personalissima produzione. Gli ingredienti di base sono quasi sempre i medesimi: farina, acqua, sale, lievito e strutto, ma come già accennato, i pani sono tra loro tutti diversi non solo per formato e gustosità, in quanto dovuti alla tipologia dell’impianto, modo di impastare e forma ma accumulati da tanto amore per queste valli e il territorio, nonchè per la appassionata professionalità intrinseca in ognuno di questi sempre più rari artigiani del buon gusto e genuinità.
Oltre a questi pani tradizionali, vi sono altri prodotti assolutamente tipici di queste parti, a cavallo tra felsinei e i conservatori della secchia rapita nel Duomo della Ghirlandina, immortalata da una famosa lode del Tassoni.
Il ‘borlengo’, sottilissimo e fragrante velo, antesignano delle odierne crespelle, rigorosamente condito dai gustosi aromi tipici della montagna “povera” quali la “conza”: saporitissimo impasto di aglio, lardo e prezzemolo fresco tritato finemente e immancabile parmigiano reggiano grattugiato; la ‘tigella’, che prende il nome dallo stampo in cui l’impasto viene posto e la ‘crescentina’ rigorosamente fritta nello strutto, che i cugini modenesi danno il particolare nomignolo di ‘gnocco fritto’. Il mariàge perfetto per questi sapori decisamente unici e forti, sono i gustosi e goderecci salumi e affettati che si producono in queste colline da sua “Maestà il Maiale” allevato allo stato brado e rigorosamente controllato e certificato per la genuinità e la nostra piacevolezza. Assolutamente da non dimenticare dell’amico maiale, è che non si getta via nulla in quanto ogni sua parte anatomica è sempre preziosa e ricercata: dalle innumerevoli tipologie di insaccati agli umili ciccioli, ai vari salami e i preziosi prosciutti.
Marco Terenzio Varrone, nel trattato “De Re Rustica” del 37 aC elogiava l’allevamento dei suini a tal punto che           “ … suillum pecus donatum ab natura dicunt ad epulandum!”  In altre parole, ritiene che il suino sia stato donato dalla natura per godere della vita.
   Dopo la piacevolissima frutta, in ogni formato e dolcezza, così pure per il pane, la cui sacralità è unanimemente riconosciuta dalla notte dei tempi, e le gustosità del maiale, anche il “Re dei Formaggi”, il Parmigiano Reggiano, trova in queste lande collinari appassionati produttori per il cultore di tale delicatezza e gustosità.
Nel territorio della Strada dei Vini e dei Sapori “Città Castelli Ciliegi”, la produzione del parmigiano reggiano, prelibato prodotto caseario di antiche e nobili origini, è diffusa sia nell’area modenese che in quella bolognese.
Il latte prodotto in queste zone è sempre di alta qualità e presenta la spiccata attitudine alla caseificazione e rende questo formaggio particolarmente saporito e nutriente. Le tecniche di lavorazione assolutamente naturali, praticamente immutate da almeno otto secoli (!), sono la garanzia della massima genuinità: non è utilizzato alcun ingrediente chimico aggiunto in quanto sono esclusivamente l’arte del casaro e l’azione del calore a trasformare il latte in formaggio, inoltre, la stessa stagionatura, assolutamente naturale, della durata da 12 a 36 mesi senza alcuna accelerazione o modificazione indotta.
In cucina, oltre a rappresentare il condimento insostituibile per pastasciutte, minestre e saporite zuppe, il parmigiano costituisce un ingrediente importante di numerose e pregevoli preparazioni gastronomiche.
   Il nettare di Bacco che si produce nel Comprensorio Colli Bolognesi, in un’area contenuta pari a circa 1500 ha, è veramente poca cosa se paragonato ad altre zone DOC e DOCG in cui l’estensione territoriale è decisamente molto più grande, ma … a piccola area corrisponde una certa e riconosciuta elevata qualità!
Le colline che si estendono tra Bologna e Modena vantano una tradizione pluri-secolare nella produzione di vini e in tutto ciò che la viticoltura stessa rappresenta in questi quattordici piccoli comuni situati a sud di Bologna e delle consolari Via Emilia e Via Claudia in direzione dell’unico comune modenese, Savignano sul Panaro, sito alla destra del fiume omonimo, in cui si possono elaborare le otto tipologie dei vini DOCG e DOC Colli Bolognesi.
Nel corso degli anni, mettendo a frutto la spiccata vocazione del territorio che comprende la maggioranza dei comuni della “Strada dei Vini e dei Sapori - Città Castelli Ciliegi” ai vitigni tradizionali se ne sono aggiunti altri, in quanto essendo dotati di elevate caratteristiche enologiche, si stanno facendo sempre più conoscere e apprezzare.
   Il frutto di questo costante e appassionato lavoro, è una produzione vinicola ampia e qualificata che ha ottenuto con barbera, merlot e cabernet sauvignon, vitigni a bacca nera arrivati sul territorio nella seconda metà dell’800, contemporaneamente ai bianchi sauvignon, pinot bianco, riesling italico, chardonnay, mentre lo storico “pignoletto” merita un breve approfondimento.
Già conosciuto nel I° sec dC da parte di Plinio il Vecchio in quanto riportato nell’annuario enologico dei cento vini più noti e famosi di allora, “Naturalis historia”, il più famoso trattato di agricoltura da sempre riconosciuto come tale. Dal “pinus læto” di venti secoli or sono, il pignoletto è da sempre considerato il “Re dei Colli Bolognesi”, anche solo recentemente approfondite ricerche hanno affermato che il vitigno utilizzato è il “grechetto gentile” ma ciò non sminuisce la grandezza e l’importanza di questo storico-cultural vino delle nostre splendide colline in quanto identifica peculiarità, passione e amore per questa terra che nella naturale asprezza e avversità, ripaga sempre le laboriose genti che l’amano e la rispettano.
I comuni di Castello di Serravalle, Monte San Pietro, Zola Predosa e Monteveglio in cui vi è la sede del Consorzio Vini Colli Bolognesi, fanno parte del novero nazionale delle “Città del Vino”.
   Professionalità e cortesia con cui si è accolti e consigliati durante le degustazione e acquisti, non devono far dimenticare gli eventi culturali, manifestazioni ricreative e della tradizione popolare che vengono proposti annualmente come un rito propiziatorio, sicuramente gioiose e goderecce
Itinerari per il week-end e gite domenicali con visite ad aziende e cantine, passeggiate tra vigneti, parchi e borghi dimenticati dal tempo, facendoci ricordare che la vita comprende anche questi momenti, necessari, fatti di piccole cose e sfumature che la frenesia di tutti i giorni non ci permette di cogliere e goderne pienamente.

venerdì 27 aprile 2018

CRISTOFORO DA MESSISBUGO


Cristoforo di Messisbugo e il Rinascimento:
innovazione e genialità del desco
   Il più antico testo di gastronomia cortigiana conosciuto finora, è il “Liber de coquina” di un anonimo trecentesco scalco operante presso la Corte angioina, considerato, a parere degli esperti di cucina di allora, “ … il meno provinciale e il più aperto alle suggestioni di costumi cucinari di altri popoli”.
   Nei primi anni del XVI° sec, sempre a Napoli, però siamo alla corte aragonese di Re Ferdinando, Roberto da Nola stila un “Libro de cucina” nel quale prima del ricettario sono presentati i ruoli fondamentali e “… officiali della casa e quindi il protocollo della tavola con l’inserimento, per la prima volta, del trinciante” un addetto che nelle altre corti, compresa quella estense, troveremo più tardi.
   L’arte e il cerimoniale della tavola signorile nascono, probabilmente, lontano da Ferrara, ma qui conobbero una svolta decisiva in perfetta sintonia con la cultura artistica e letteraria che rigogliosamente fiorì nel corso del rinascimento. Il merito del salto di qualità culinaria, va senza alcun dubbio a Cristoforo di Messisbugo, il quale non fu un semplice cuoco, anche se ufficialmente il titolo di “CHEF” fu coniato durante e perfezionato dopo la rivoluzione francese del 1789, come gli autori quattro-cinquecenteschi che lo avevano preceduto, compreso il grande Maestro Martino da Como.
Era un gentiluomo pervenuto al grado di “SCALCO DUCALE” non soltanto in virtù della sua grande perizia nel confezionare vivande di ogni genere, ma anche per la sua esperienza diretta della vita di corte e, certamente, per gli incarichi che egli svolse lontano dalla città.
La superiorità rispetto agli autori precedenti, a prescindere dalle sue incontestabili capacità di regista del banchetto-spettacolo, appare nella maggior organicità che seppe dare alla sua opera gastronomica come dimostrano i titoli, la partizione e le sequenze degli argomenti trattati:
- Composizioni de le più importanti vivande - Torte di varie sorte - Ministre diverse - Ministre per di di Quaresima - Sapori da grasso e da magro - Potacci e roba in tiella e pignatta, stufata e al forno - Latticini di più sorte.
Inoltre, al di là delle vivande più ricorrenti che non si discostano molto nella struttura e nella prassi cucinaria da quelle di un Maestro Martino, soltanto a scorrere i cibi dei servizi di credenza appaiono evidenti un’originalità e una genialità di invenzioni che fanno del Messisbugo il vero fondatore del gusto moderno italiano.
   Moltissimi cibi e piatti di quell’epoca sono usciti dalle odierne consuetudine della tavola, in quanto sia trascurati che dimenticati, poiché non giustamente apprezzati non solo per le caratteristiche culinarie, ma soprattutto non considerati al passo col nuovo metodo di valutazione che la cucina di oggi impone. Una delicata ma saporita insalatina in pastello di capperi, tartufi e uva passa o un’insalata di polpa di fagiano e di cedri, non rappresenterebbero oggi come allora, il successo di un ristorante d’elite e “stellato”? Mentre i tortelletti di spinaci, le polpette di storione, la porchetta di latte con mostarda, dimostrano come Messisbugo sia presente nel desinare quotidiano.
   Messisbugo ha meriti fondamentali: oltre a offrire un compendio esemplare e più vasto della gastronomia europea rinascimentale, pone in evidenza la grandezza e l’italianità dei prodotti alimentari.
Le citazioni e le ricette di piatti dalla Lombardia alla Sicilia, dimostrano l’innegabile esistenza sul piano del gusto, di un’unità che va ben oltre le divisioni politiche. Ulteriore merito è quello di porre sullo stesso piano cibi nati espressamente per la tavola nobiliare e cibi popolari come minestre d’ortaggi o di legumi, tinche fritte, luccio in gratella e piatti simili di cui non riporta le ricette in quanto dice, “… da qualunque vile femminuccia si sapiano fare …”, ma non per questo meno degne della tavola del principe!
La vita di Cristoforo di Messisbugo
   Messi detto Sbugo, come si può leggere in numerosi documenti autografi, è nato sul finire del ‘400 a Ferrara e a detta di alcuni storiografi ferraresi, da una famiglia proveniente dalle Fiandre, anche se altre citazioni riportano che sia nato nelle Fiandre e successivamente stabilitosi nella città estense. Grazie al matrimonio con la nobile Agnese, figlia del Conte Giovanni Gioccoli, occupò importanti incarichi presso la corte degli Estensi, in qualità di amministratore dei fondi ducali e soprattutto nelle vesti di abilissimo scalco, da meritare il titolo di Conte Palatino concessogli dall’imperatore Carlo V° nel gennaio del 1533.
Messisbugo si perfezionò a tal punto nell’arte del taglio dei cibi che i suoi numerosi allievi divennero fra i Maestri di cerimonia più ambiti delle corti europee.
Morì nel 1548 e le sue spoglie mortali sono sepolte presso l’altare maggiore della chiesa di Sant’Antonio in Polesine, a Ferrara, dove una lapide commemorativa lo ricorda.
   A Ferrara, un anno dopo la sua scomparsa, gli editori Giovanni de Bughait ed Antonio Hucher, pubblicarono il suo ricettario “Banchetti, composizioni di vivande et apparecchio generale” comprendente tre distinte sezioni: un discorso introduttivo o “MEMORIALE PER FARE UN APPARECCHIO GENERALE”; un “CATALOGO DI DIECI CENE, TRE DESINARI ET UN FESTINO”, descritti in tutte le fasi operative con relativi abbinamenti di bevande, sia vini che liquori, ed una “RACCOLTA DI RICETTE”: ben trecentoquindici!
Questa opera culinaria fu un vero trattato di costume e un’esauribile fonte di notizie sul cibo, con preparazioni a volte elaborate e spettacolari che ben degnamente figuravano nei banchetti di corte: è unanimemente considerato uno dei principali testi di riferimento per la ricostruzione della storia gastronomica del XVI° sec, in quanto l’autore annotò scrupolosamente non solo le portate d’alta cucina di sua invenzione, ma fissa e raffina quelle popolari, adattando ai prodotti locali quelle forestiere ed esotiche. Il volume è anche una valida testimonianza delle modalità di approvvigionamento delle vivande, delle abitudini e delle suppellettili utilizzate in cucina in quell’epoca.
Questo gentiluomo di corte, oltre che del gusto, si interessava attivamente della vista e dell’udito, intercalando i lussuosi convivi nobiliari, con piacevoli intermezzi di danza o proponendo ricercate musiche e addirittura commedie.
Fondamentale, in quanto ricco di grazia ed eleganza, perfezionò il taglio dei cibi ma soprattutto quello delle carni, servendosi di venticinque coltelli, costruiti appositamente su suoi disegni, e forchette di vario genere, riuscendo così a “scalcare” le carni senza toccarli con le mani: seppe trasformare la trinciatura in un’arte sopraffina, elegante e ricca di abilità.
Alcune ricette dello scalco Cristoforo tratte dal volume “Libro novo nel qual s’insegna a’ far d’aqui sorte di vivanda”: dopo quasi cinque secoli, sono sempre stimolanti, attuali ma soprattutto gustose!
- PER FARE MACCHERONI - Piglia libre cinque di farina bianca et due pani bianchi grattati, et messedali bene insieme con la farina, et poi habbi l’acqua che bogli, et impasta insieme tre uova et fa la pasta che non sia dura ne tenera, et lasciala rafredare un poco, poi tagliala in pezzi tanto quanto è una castagna poi fa tuoi maccheroni su il rovescio della grattugia, e poi ponli a cuocere in acqua bogliente, et come seranno cotti, le porrai un poco di sale, et poi habbi di formaggio duro libre due e mezzo grattato, con oncia meza di pevere pesto messedato di sopra, ed libra una et meza di butiro fresco distrutto disopra, poi li coprirai con gli altri piatti, mettedoli in calda sino che vorrai mandare in tavola, et nell’imbandirli, se li porrai un puoco di zuccaro, et canella di sopra seran migliori.
- LOMBO DI BUE ALLEMANA - Piglia il lombo di bue grasso, ch’abbia del frollo, et nettalo bene da quelle pelegate, et nervi che ha attorno, poi battilo molto bene, et ponilo ammoglio in malvasia, et aceto, ma più aceto, con polvere di coriandoli, et finocchi et poco sale, et lascialo per spacio di cinque in sei ore. Poi ponilo ad arrostire nello spiedo, et come è cotto ponilo in un piatto, mentre si cuoce, poni nella giotta un poco di quello aceto e malvasia dove è stato ammoglio, et posto che lo havrai nel piatto ponili sopra detto sapore, che ponerai nella giotta con quello che serà, colato del lombo e coprilo, et lasciato attuffato così meza buon’hora.
- TORTA D’ERBE ALLA FERRARESE, O ROMAGNOLA - Piglia una brancata di bieta ben lavata, et trita molto bene, et ponila in un vaso con povine quattro fresche et quattro bicchieri di latte, et uova otto, et libre due di formaggio grasso, et una libra di butiro fresco, etun quarto di pevere pisto, etincorpora beneogni cosa insieme, et onta la padella con oncie tre di butiro fresco li porrai la prima spglia, et poi sopra la composizione sopradetta et distendila bene sopra la spoglia, poi havrai libra meza di formaggio tomino ben grasso fatto a fetine quanto si può sottili, et li stenderai sopra detta composizione, et li porrai poi sopra l’altra sfoglia facendoli l’ordello intorno, poi li porrai a cuocere, et quando serà quasi cotta lo porrai sopra oncie quattro di zuccaro, poi finirai di cuocere.

martedì 20 marzo 2018

CHIAMARSI TERRA NERA E NON SENTIRNE IL PESO


Chiamarsi Terra Nera e non sentirne il peso
   Se digitiamo su un motore di ricerca terranera compariranno una serie di località e di ristoranti italiani e non: dall’Abruzzo, nel cuore del Parco Nazionale, al Piemonte, al Grossetano a Santorini con un’eccellente offerta di “cibo in spiaggia” e lettini gratis sul mare.
Compare anche un documentario sul lavoro nero minorile.
Non compaiono invece le speranze di tre giovani, Beatrice, Alessio e Luca che hanno scommesso su Terra Nera a Ruòsina, sopra al forte, direzione Stazzema, ma a mezzo monte, dove la storia dell’eccidio c’è passato senza farci stazione, dove un po’ tutto inizia a scorrere verso il mare di cui ti arriva pure l’odore in certe notti di mareggiata.
Cosa offre Ruòsina? Il fresco rispetto alla costa quando affoga nella calura, perché i boschi e le montagne ci respirano addosso, quasi sulla strada provinciale, appena una spalletta oltre il torrente ripulito e bianco, coi sassi che ti dicono dei marmi pregiati poco distanti.
Ruòsina non è un buon punto di partenza: è un ottimo punto di arrivo, magari da cui partire, iniziare, ma ci approdi solo dopo giri lunghi intorno al mondo. In Australia, insomma, ci devi già essere stato e così a Parigi, devi aver visto tanti colori e annusato tante strade diverse per capire che la storia che c’è qui, buttata come un cencio, è una storia buona di gran fatica ed è un pezzo di Toscana di pregio.
Nel 1500-’600 qui c’erano miniere di carbone e ferro. Lungo il trasporto la terra si faceva nera, ma nera è pure quando fa buio ed è umido intorno. Quest’umido scopri, dopo giri ampi e ricchi di incontri, che è carico di profumi e di fermenti genuini. Così Angelo Cinquini, Luca Cinquini, Alessio Casti Lebiu e Beatrice Cinquini hanno scommesso di poter raccontare la storia di questo pezzetto di Toscana nel loro circolo culturale e ricreativo che hanno chiamato Terra Nera, senza sentirne il peso, ma piuttosto il profumo. Qui ospitano artisti diversi: fotografi, pittori, scultori, poeti, narratori, musicisti, fantasisti, registi, attori … capaci di narrarsi, ma anche di saper ascoltare la storia carbonara di Terra Nera e di Ruòsina, dove carbonara sta per “storia segreta”, un po’ nascosta, ma già ci dice pure dell’altra passione della brigata Cinquini-Casti Lebiu: la cucina. L’intento principale è quello di mettere a tavola i buoni prodotti locali, freschi e a filiera corta. Il pane che lavorano per i loro clienti rende “dipendenti”: Beatrice è veramente brava, ma anche il forno a legna fa la sua parte. Poi i cantuccini e tartufi alla pasta di mandorle e il cocco avvolto nel cioccolato di Agliana sono un altro rimedio contro insonnia e depressione da accompagnare a un buon vin santo o,  semplicemente, a un ottimo caffè, tutto preparato da Beatrice. Particolari le carni locali trattate alla sarda alla maniera di Alessio, chef già in un bellissimo resort sardo (Forte Village), capace di mantenere un gusto diverso, gradevole e fresco, molto naturale. Le pizze di Luca fanno serata: farine di qualità e prodotti genuini oltre al forno a legna sono il segreto della riuscita. Ai tavoli il garbo di Angelo e di Beatrice, la bella figlia che ha conosciuto anni parigini con gli ordini con l’erre francese, si fanno prossimi alle richieste dei clienti, ventisette e non di più alla volta, cercando di capire cosa sarà meglio offrire della loro Terra Nera, quale segreto rivelare, quale storia lasciare sospesa per la prossima volta, mentre arriva lontano l’eco del mare, vicinissimo il profumo dei quercioli e dell’acqua dolce sui sassi aguzzi del torrente.
Intanto Alessio pensa un altro primo e un altro secondo di stagione con le giardiniere croccanti preparate da loro e i funghi che nasceranno al primo sole dopo l’acqua, gli asparagi selvatici e le uova fresche per tirare la pasta e tagliarci nastroni da sposare al cinghiale in bianco, ma anche al tartufo non guasta la storia.
Certo ci piacerebbe ci fosse lo spazio per riporre qualche gioco da tavolo, farne un po’ una ruzzoteca, per dirla con gli amici livornesi, nel primo pomeriggio, con centrifughe, caffè, thè e tisane delle Terza Luna, magari!, assolutamente ineguagliabile quella alla seta. Ci piacerebbe della pasticceria da colazione al mattino con latte e caffè alla maniera familiare o del pane casalingo e marmellata fatta da loro con le more prepotenti di settembre e le fragole di bosco che già accennano a farsi . Questo è un circolo che si chiama Terra Nera ma che fa un gran cerchio azzurro in cui trovarsi a ogni ora a parlare come a stare in silenzio, a trovarsi, come a rincontrare se stessi scrivendo e dipingendo in laboratori artistici e dove, sempre e comunque, gustare buone piccole cose sane e fresche come la vera felicità.
di Lorella Rotondi

lunedì 19 marzo 2018

UN SAN VALENTINO ESCLUSIVO?


Un San Valentino esclusivo?
Un San Valentino a I’RitroVino di Caino
   Al civico 67 di Via di Burello, località Torre a Ficecchio in provincia di Firenze, ci sono Simona e Simone col personale Bar- Alimentari- Enoteca.
Simone, in verità, è un geometra, porta qui a vivere tre anni fa la sua giovane compagna dopo un’attenta ristrutturazione che prevede abitazione ed esercizio. Simona gli ha rivelato di voler cambiare lavoro e si stava guardando intorno, quando il Simonepensiero risolve definitivamente ogni dubbio a entrambi. Così dall’incontro e dall’amore nasce un’unione vincente, un nido di vita e di lavoro. Simone ogni giorno si reca allo studio e Simona scende la scala e “apre bottega”: le colazioni, le ricariche del telefono, poi i panini, qualche, fortunatissimo!, avventore a pranzo in inverno, molti in primavera e in estate nell’ampio giardino dove si organizzano anche serate a tema. Il pomeriggio è aperto dalle 16,30 alle 20,00
I prodotti e la cucina sono solo di alta qualità e quindi, bontà garantita: cantina assortita di vini toscani e abbiamo apprezzato in particolare “Puro” un chianti senza solfiti aggiunti della fattoria Lavacchio, prodotto per hobby da una signora che di mestiere fa il chirurgo, ma anche dell’ottimo vino!
Al banco c’è una ricca selezione di formaggi e salumi straordinari. Il tagliere diventa intricante, associando il formaggio al tartufo, il cacio fresco di Lucca con il miele di sulla o la salsa di finocchietto selvaggio e la burratina campana o la mozzarella di bufala, il formaggio stagionato in grotta e il prosciutto cenerino, la finocchiona. Farà da protagonista , per chi se ne intende davvero, una soppressata così fine nel gusto ingentilito dalla fragranza agrumata che difficilmente se ne trova ancora. In cucina i piatti sono preparati con professionalità e accuratezza dal team familiare e si mangiano i piatti di un tempo e di stagione. Quando, viaggiando, ci siamo trovati a gustare qualcosa a I’RitroVino, erano impegnati per il catering in commemorazione del grande pittore e scultore Arturo Carmassi che a Torre ha trascorso gli ultimi anni della sua vita e nella sua abitazione-laboratorio sono conservate opere e archivio. Ricordo di aver visto una sua mostra a Ferrara, a Palazzo dei Diamanti nel 1977: io giovanissima e lui un gigante indimenticabile!
Un piccolo viaggio ci ha condotto in un nido d’amore e di sapori e di saperi. Perché non progettare qui il pranzo di San Valentino? Certo solo per i più fortunati, poiché i tavoli sono solo quattro e posti nell’antica stalla con ancora la mangiatoia e la pendenza per lo scolo. Pensiamo possa essere di buon auspicio, visto la gioia e il clima sereno che si respira in questa botteghina accanto al vecchio appaltino di cui ha ereditato le incombenze e allo studio artistico del grande Arturo Carmassi.
Da non perdere una piacevole sosta qui, nella casa rosa di Simona e Simone, telefonando alla gentilissima signora Bartolomei al 338/3205855.
Presenti su Facebook e Sito I’RitroVino di Caino.
E’ passato San Valentino? L’è sempre un gran bel … ritrovino!!!
di Lorella Rotondi

venerdì 2 marzo 2018

VINI DOCG E DOC DEI COLLI BOLOGNESI


VINI DOCG E DOC DEI COLLI BOLOGNESI
Prezioso scrigno di qualità e piacevolezza
   Quando i romani, circa due secoli prima della nascita di Cristo, sottomisero e unificarono sotto il segno della lupa i territori abitati dalle irrequiete tribù dei galli boi, avevano probabilmente mille motivi per farlo, non esclusi quelli legati alle ricchezze agricole di tali zone.
I filari di vite erano maritati ad alberi vivi, secondo l’uso introdotto dagli etruschi e sviluppato successivamente dai galli. Tale metodo infatti, lo si chiama “arbustum gallicum”, particolarmente adatto non solo alle terre basse e umide della pianura, ma soprattutto si era incrementato notevolmente sulla zona collinare. Nella maggioranza dei casi erano gli ulivi, che in queste colline avevano trovato un ambiente favorevole al suo sviluppo, tant’è che dopo oltre venti secoli, in alcune aree, tale coltivazione è ancora viva e in netta ripresa.
E’ accertato che da tali terreni, soprattutto quelli collinari posti a sud di Bononia, i nostri antenati latini producessero vini che li appassionarono moltissimo!
Le terre dell’agro bononiense erano coltivate dai veterani di tante campagne militari in tutto il mondo allora conosciuto, per cui la bevanda bacchica era palesemente bevuta, gustata e apprezzata!
Plinio il Vecchio, I° sec dC, nel capitolo “Ego sum pinus laeto” tratto dalla monumentale opera di agronomia “Naturalis historia”, enuncia che in “ … apicis collibus bononiensis … ” vi si produceva un vino frizzante e albano, cioè biondo, molto particolare ma non abbastanza dolce per essere piacevole e quindi non apprezzato, poiché è risaputo che durante l’epoca imperiale era gradito il vino dolcissimo, speziato e aromatizzato con innumerevoli essenze, inoltre, sempre molto “maturo” in quanto i vini giovani non erano in grado di soddisfare i pretenziosi palati della nobiltà. Erano trascorsi poco meno di tre secoli dalla conquista romana, 179 aC, che il vino era radicalmente mutato, ma non le qualità e caratteristiche uniche di tale nettare.
   Dalla caduta del Sacro Romano Impero d’Occidente, 476 dC, fino ai secc XI° e XII°, per l’umanità del vecchio continente, è stato un periodo decisamente buio e cupo, però l’essere umano nelle ricchezza dell’inventiva e miglioramenti, stava progredendo con passi sempre più rapidi e decisi all’indirizzo di quella evoluzione sociale certamente complessa e difficile, ma sicuramente ricca e desiderata, in ogni settore di vita.
E’ unanimemente riconosciuto alla Chiesa il merito di aver difeso la coltivazione della vite.
Fu l’imperatore Costantino il Grande nel III° sec dC a stabilire che il cristianesimo divenisse la religione di stato abiurando quella dell’idolatria professata fino ad allora.
Con l’eucarestia, quando Cristo durante l’ultima cena trasmette il suo pensiero agli apostoli “ … questo è il mio sangue offerto per la salvezza dell’umanità … ”, ebbene, quel vino contenuto nella coppa ne rappresenterà l’essenza interiore.
   All’interno delle massicce e sicure mura di conventi e abbazie, la vite è coltivata per ottenere quel vino simbolo di religiosità e continuità di fede, in considerazione delle innumerevoli invasioni barbariche che stavano travolgendo l’Enotria Tellus, poiché anticamente così era apprezzata e chiamata l’Italia.
Tra situazioni alterne, si arriva al VII° sec in cui si verifica un momento determinante per il futuro dell’agricoltura e del vino. Nel 612 a Bobbio, nella solitudine dell’appennino piacentino, si stabilì, proveniente dalla natia Irlanda, San Colombano, fondandovi il celebre monastero. La tradizione tramanda che per essere accettati e divenire monaci, oltre alla fede, il novizio doveva avere nozioni di “agricoltura”. Il nostro priore mandava i confratelli a diffondere non solo la voce della cristianità ma anche quella della coltura, coltivazione e ripristino agreste delle campagne devastate dalle incursioni dei briganti.
E’ certo che gli antichi progenitori latini non avrebbero scomodato Bacco o, ancora precedentemente il Dionysos dei greci, per cui anche San Colombano nella sacralità rappresentata dal vino, se non che, unanimemente, avessero intuito che questo nettare per gli uomini aveva in sé una molteplice potenzialità: rimedio alle fatiche, edonistico e spirituale, in contrasto con quella del veleno!
Fin dai tempi antichi il vino ha avuto appassionati fautori e acerrimi nemici.
Ippocrate, padre della medicina, lo considerava un ottimo medicamento utile a migliorare le funzioni dell’apparato digerente e quelle della psiche!
Altri importanti dotti ne enunciavano le rare e salvatrici peculiarità: Asclepiade, San Paolo, Platone e a Cicerone, che la tradizione ne attribuisce “l’invenzione” dell’etimologia del nome, in quanto si vuole che vino derivi contemporaneamente da VIR-uomo e SIS-forza, per cui ecco il latino “vinum”.
Anche se il grappolo d’uva è il simbolo dell’unione, dell’amicizia e il calice quello della festa conviviale, il vino ha trovato nei secoli anche medici illustri ed irriducibili che lo contestavano e altri che lo vietavano: in ambedue i casi, con atteggiamenti pregiudiziali e senza alcuna conoscenza degli effetti sugli organi. Lo sviluppo delle conoscenze mediche chiarì negli anni gli effetti benefici e dannosi dell’alcol sul nostro organismo.
Gli scritti medici riguardano sempre gli effetti nocivi delle dosi eccessive, confondendo così le azioni del vino con quelle dell’abuso alcolico e della dipendenza che esso può dare e trascurando, quasi sempre, un fattore importante: il vino non contiene solamente alcol, ma centinaia di altre sostanze che interagiscono coi diversi apparati del corpo umano, principalmente col cuore e coi vasi sanguigni e il resveratrolo con i benefici che apporta, scoperto qualche anno addietro, ne è la conferma.
   Riprendendo il cammino alla ricerca di tracce che ci possano condurre ai vini che oggi degustiamo, ci imbattiamo nelle biografie dell’operosità di tali monaci-agresti che sono giunte fino ai giorni nostri, in cui si menzionano i notevoli impulsi dati per lo sviluppo della vite.
Si sparsero in tutte le regioni italiane e nel migrare verificarono che sulle colline bolognesi si produceva un buon vinello dorato e mordace, appunto frizzante.
- OMNIA ALLA VINA IN BONITATE EXCEDIR - decisamente “ … un vino superiore per bontà a tutti gli altri … ” e bevuto non solo durante le pratiche liturgiche, ma anche con gioia alla tavola del nobile e del volgo, ottenuto da uve conosciute e apprezzate come pignole!
I secoli che da allora sono trascorsi per giungere fino ai giorni nostri, sono stati indiscussi testimoni di innumerevoli fatti e citazioni riguardanti i vini delle nostre splendide colline bolognesi.
   Nel 1300, Pier de’ Crescenzi, nel più importante trattato di agronomia medievale “Ruralium commordorum - libro XII”, descriveva le caratteristiche organolettiche del “pignoletto” che si beveva allora, in quanto il vino, oltre che maggiormente prodotto, era quello più gradito per piacevolezza e per la vivace e dorata spuma.
   Agostino Gallo ne “Le venti giornate dell’agricoltura” del 1567, sollecitava di piantare le uve pignole in quanto per la notevole produzione, permetteva un florido commercio perché sempre ricercate.
Medico e botanico di Papa Sisto V°, il Bacci, nel personale trattato del 1596 “De naturalis vinarium historia de vitis italiane”, asseriva le “ … rare et optime … ” qualità intrinseche dell’uva pignola.
Così pure Soderini, noto agronomo fiorentino, sempre in quegli anni, ne confermava le caratteristiche.
Il Trinci, 1726, pone in evidenzia le caratteristiche di tale vitigno: l’odierno pignoletto si riscontra nella sua quasi totalità di tali affermazioni, per non dire che sono le medesime.
Ulteriori conferme sono riportate nel “Bullettino Ampelograficho” del 1881, in cui è nominata l’uva pignola prodotta nelle colline poste a sud dell’urbe di Bologna, la cui assomiglianza con l’attuale produzione è stupefacente, e non lascia più adito ad altri dubbi di sorti.
   Il pignoletto, attraverso vari appellativi e caratteristiche mutate al solo evolversi del tempo, lo ritroviamo oggi con gli stessi principi organolettici di allora: un vino unico e ricco di peculiarità.
Recenti ed approfondite ricerche ampelografiche, hanno posto in evidenza definitivamente che il vitigno da cui si produce il nostro pignoletto, non è altro che l’umbro “GRECHETTO GENTILE”. Pertanto, il vino si può e si deve continuare a chiamarlo PIGNOLETTO DOCG, ma il vitigno da cui si produce è, appunto, il grechetto gentile.
E’ risaputo che tale vino è considerato il “Re dei Colli Bolognesi”, ma anche le altre dorate tipologie enoiche prodotte in questi fazzoletti di terra collinare quali pinot bianco, riesling italico, sauvignon, chardonnay, bianco bologna, nelle molteplici vesti di tranquilli, frizzanti o spumanti e altrettanto per la sanguigna barbera ed i rubini merlot, cabernet sauvignon e rosso bologna, sono vini decisamente esclusivi, tipici e caratteristici e sottoposti al disciplinare ministeriale della DOC che ne salvaguardia le qualità per un consumatore sempre più attento ed esigente, onorando così un detto della Bologna godereccia, il cui anonimo autore di due secoli fa, ne era senz’altro un estimatore:
“A tavola c’è silenzio quando si mangia bene ma si beve male!”