VINI DOCG
E DOC DEI COLLI BOLOGNESI
Prezioso scrigno di
qualità e piacevolezza
Quando i romani, circa due secoli prima della nascita di Cristo,
sottomisero e unificarono sotto il segno della lupa i territori abitati dalle
irrequiete tribù dei galli boi, avevano probabilmente mille motivi per farlo,
non esclusi quelli legati alle ricchezze agricole di tali zone.
I filari di vite erano maritati ad alberi
vivi, secondo l’uso introdotto dagli etruschi e sviluppato successivamente dai
galli. Tale metodo infatti, lo si chiama “arbustum gallicum”, particolarmente
adatto non solo alle terre basse e umide della pianura, ma soprattutto si era
incrementato notevolmente sulla zona collinare. Nella maggioranza dei casi
erano gli ulivi, che in queste colline avevano trovato un ambiente favorevole
al suo sviluppo, tant’è che dopo oltre venti secoli, in alcune aree, tale
coltivazione è ancora viva e in netta ripresa.
E’ accertato che da tali terreni, soprattutto
quelli collinari posti a sud di Bononia, i nostri antenati latini producessero
vini che li appassionarono moltissimo!
Le terre dell’agro bononiense erano coltivate
dai veterani di tante campagne militari in tutto il mondo allora conosciuto,
per cui la bevanda bacchica era palesemente bevuta, gustata e apprezzata!
Plinio il Vecchio, I°
sec dC, nel capitolo “Ego sum pinus
laeto” tratto dalla monumentale opera di agronomia “Naturalis historia”,
enuncia che in “ … apicis collibus
bononiensis … ” vi si produceva un vino frizzante e albano, cioè biondo,
molto particolare ma non abbastanza dolce per essere piacevole e quindi non
apprezzato, poiché è risaputo che durante l’epoca imperiale era gradito il vino
dolcissimo, speziato e aromatizzato con innumerevoli essenze, inoltre, sempre molto
“maturo” in quanto i vini giovani non erano in grado di soddisfare i
pretenziosi palati della nobiltà. Erano trascorsi poco meno di tre secoli dalla
conquista romana, 179 a C,
che il vino era radicalmente mutato, ma non le qualità e caratteristiche uniche
di tale nettare.
Dalla caduta del Sacro Romano Impero
d’Occidente, 476 dC, fino ai secc XI° e XII°, per l’umanità del vecchio
continente, è stato un periodo decisamente buio e cupo, però l’essere umano
nelle ricchezza dell’inventiva e miglioramenti, stava progredendo con passi
sempre più rapidi e decisi all’indirizzo di quella evoluzione sociale
certamente complessa e difficile, ma sicuramente ricca e desiderata, in ogni
settore di vita.
E’ unanimemente riconosciuto alla Chiesa il
merito di aver difeso la coltivazione della vite.
Fu l’imperatore Costantino il Grande nel III°
sec dC a stabilire che il cristianesimo divenisse la religione di stato
abiurando quella dell’idolatria professata fino ad allora.
Con l’eucarestia,
quando Cristo durante l’ultima cena trasmette il suo pensiero agli apostoli “ … questo è il mio sangue offerto per la salvezza dell’umanità … ”, ebbene, quel vino
contenuto nella coppa ne rappresenterà l’essenza interiore.
All’interno delle massicce e sicure mura di conventi e abbazie, la vite
è coltivata per ottenere quel vino simbolo di religiosità e continuità di fede,
in considerazione delle innumerevoli invasioni barbariche che stavano
travolgendo l’Enotria Tellus, poiché anticamente così era apprezzata e chiamata
l’Italia.
Tra situazioni alterne, si arriva al VII° sec
in cui si verifica un momento determinante per il futuro dell’agricoltura e del
vino. Nel 612 a
Bobbio, nella solitudine dell’appennino piacentino, si stabilì, proveniente
dalla natia Irlanda, San Colombano, fondandovi il celebre monastero. La
tradizione tramanda che per essere accettati e divenire monaci, oltre alla
fede, il novizio doveva avere nozioni di “agricoltura”. Il nostro priore
mandava i confratelli a diffondere non solo la voce della cristianità ma anche
quella della coltura, coltivazione e ripristino agreste delle campagne
devastate dalle incursioni dei briganti.
E’ certo che gli antichi progenitori latini
non avrebbero scomodato Bacco o, ancora precedentemente il Dionysos dei greci,
per cui anche San Colombano nella sacralità rappresentata dal vino, se non che,
unanimemente, avessero intuito che questo nettare per gli uomini aveva in sé
una molteplice potenzialità: rimedio alle fatiche, edonistico e spirituale, in
contrasto con quella del veleno!
Fin dai tempi antichi il vino ha avuto
appassionati fautori e acerrimi nemici.
Ippocrate, padre della medicina, lo
considerava un ottimo medicamento utile a migliorare le funzioni dell’apparato
digerente e quelle della psiche!
Altri importanti dotti ne enunciavano le rare
e salvatrici peculiarità: Asclepiade, San Paolo, Platone e a Cicerone, che la
tradizione ne attribuisce “l’invenzione” dell’etimologia del nome, in quanto si
vuole che vino derivi contemporaneamente da VIR-uomo e SIS-forza, per cui ecco
il latino “vinum”.
Anche se il grappolo d’uva è il simbolo
dell’unione, dell’amicizia e il calice quello della festa conviviale, il vino
ha trovato nei secoli anche medici illustri ed irriducibili che lo contestavano
e altri che lo vietavano: in ambedue i casi, con atteggiamenti pregiudiziali e
senza alcuna conoscenza degli effetti sugli organi. Lo sviluppo delle
conoscenze mediche chiarì negli anni gli effetti benefici e dannosi dell’alcol
sul nostro organismo.
Gli scritti medici
riguardano sempre gli effetti nocivi delle dosi eccessive, confondendo così le
azioni del vino con quelle dell’abuso alcolico e della dipendenza che esso può
dare e trascurando, quasi sempre, un fattore importante: il vino non contiene solamente
alcol, ma centinaia di altre sostanze che interagiscono coi diversi apparati
del corpo umano, principalmente col cuore e coi vasi sanguigni e il
resveratrolo con i benefici che apporta, scoperto qualche anno addietro, ne è
la conferma.
Riprendendo
il cammino alla ricerca di tracce che ci possano condurre ai vini che oggi
degustiamo, ci imbattiamo nelle biografie dell’operosità di tali monaci-agresti
che sono giunte fino ai giorni nostri, in cui si menzionano i notevoli impulsi
dati per lo sviluppo della vite.
Si sparsero in tutte le regioni italiane e nel
migrare verificarono che sulle colline bolognesi si produceva un buon vinello
dorato e mordace, appunto frizzante.
- OMNIA ALLA VINA IN BONITATE EXCEDIR -
decisamente “ … un vino superiore per bontà
a tutti gli altri … ” e bevuto non solo durante le pratiche liturgiche, ma
anche con gioia alla tavola del nobile e del volgo, ottenuto da uve conosciute
e apprezzate come pignole!
I secoli che da allora sono trascorsi per
giungere fino ai giorni nostri, sono stati indiscussi testimoni di innumerevoli
fatti e citazioni riguardanti i vini delle nostre splendide colline bolognesi.
Nel 1300, Pier de’ Crescenzi, nel più
importante trattato di agronomia medievale “Ruralium commordorum - libro XII”,
descriveva le caratteristiche organolettiche del “pignoletto” che si beveva
allora, in quanto il vino, oltre che maggiormente prodotto, era quello più
gradito per piacevolezza e per la vivace e dorata spuma.
Agostino Gallo ne “Le venti giornate
dell’agricoltura” del 1567, sollecitava di piantare le uve pignole in quanto
per la notevole produzione, permetteva un florido commercio perché sempre
ricercate.
Medico e botanico di Papa Sisto V°, il Bacci,
nel personale trattato del 1596 “De naturalis vinarium historia de vitis
italiane”, asseriva le “ … rare et optime
… ” qualità intrinseche dell’uva pignola.
Così pure Soderini, noto agronomo fiorentino,
sempre in quegli anni, ne confermava le caratteristiche.
Il Trinci, 1726, pone in evidenzia le
caratteristiche di tale vitigno: l’odierno pignoletto si riscontra nella sua
quasi totalità di tali affermazioni, per non dire che sono le medesime.
Ulteriori conferme sono riportate nel
“Bullettino Ampelograficho” del 1881, in cui è nominata l’uva pignola prodotta
nelle colline poste a sud dell’urbe di Bologna, la cui assomiglianza con
l’attuale produzione è stupefacente, e non lascia più adito ad altri dubbi di
sorti.
Il pignoletto, attraverso vari appellativi e
caratteristiche mutate al solo evolversi del tempo, lo ritroviamo oggi con gli
stessi principi organolettici di allora: un vino unico e ricco di peculiarità.
Recenti ed approfondite ricerche
ampelografiche, hanno posto in evidenza definitivamente che il vitigno da cui
si produce il nostro pignoletto, non è altro che l’umbro “GRECHETTO GENTILE”. Pertanto, il vino si
può e si deve continuare a chiamarlo PIGNOLETTO DOCG, ma il vitigno da cui si produce
è, appunto, il grechetto gentile.
E’ risaputo che tale vino è considerato il “Re
dei Colli Bolognesi”, ma anche le altre dorate tipologie enoiche prodotte in
questi fazzoletti di terra collinare quali pinot bianco, riesling italico, sauvignon,
chardonnay, bianco bologna, nelle molteplici vesti di tranquilli, frizzanti o spumanti
e altrettanto per la sanguigna barbera ed i rubini merlot, cabernet sauvignon e
rosso bologna, sono vini decisamente esclusivi, tipici e caratteristici e
sottoposti al disciplinare ministeriale della DOC che ne salvaguardia le
qualità per un consumatore sempre più attento ed esigente, onorando così un
detto della Bologna godereccia, il cui anonimo autore di due secoli fa, ne era
senz’altro un estimatore:
“A
tavola c’è silenzio quando si mangia bene ma si beve male!”
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