A Firenze s’avvicina
l’autunno dopo la “Rificolona” e la schiacciata con l’uva.
E’ da poco passata la festa della “Rificolona”
legata alla natività di Maria del 7
settembre che si svolge ogni anno fino dal XVII° sec.
Avvenimento
sacro, ma anche godereccio, molto sentito a Firenze, tanto dalle
amministrazioni comunali che dalla tradizione popolare. La festa tramanda ai
ragazzi di portare dei lampioncini di carta colorata, modellati artigianalmente
e per gusto del gioco, in forme bizzarre: all’interno è sistemato un lumicino appeso
ad una canna e trasportato per le vie. L’origine è legata al pellegrinaggio che
si attuava nel Casentino e sulle colline prossime a Firenze, per raggiungere la Basilica della Santissima
Annunziata, ancor oggi nota nel mondo per l’antica, miracolosa e venerata
immagine della Madonna madre di grazie,
la più copiata del mistero dell’Annunciazione.
All’indomani,
i pellegrini provenienti dal contado e dal Casentino, approfittavano per
allestire una vendita dei loro prodotti in Via de’ Servi o nelle immediate
vicinanze. Per trovare un buon posto per la veglia in chiesa e per il mercato
che si teneva successivamente, partivano col buio ed il cammino era rischiarato
da bizzarre lucerne appese ad una canna o bastone o pertica. Nel sacco di tela
rozza i caci, i pani, i funghi secchi, i fichi, canestrini d’uva per il pan
dolce, ma anche filati e pannilini o di lana del Casentino.
La
schiacciata con l’uva, spesso la portavano già pronta per sé e da vendere. Il
semplice impasto del pane veniva farcito con l’uva nera da vino, unta con olio
profumato col ramerino o strutto, e zuccherata. L’uva, imprigionata tra due
strati di pasta di pane dolce decorati con l’uva anche sopra, ricordava, come
ricorda oggi, che era tutto partito dalla semplice merenda di campagna, pane e
uva appunto, che si faceva a vendemmia avviata, specie in ottobre.
I giovani fiorentini, dalla risaputa indole
scherzosa, anche troppo in tante occasioni, tanto da perdere un amico pur di
fare una battuta, andavano a dileggiare i poveri contadini e montanari
addormentati sotto il loggiato della Santissima Annunziata. Oggetto di scherno
era l’abbigliamento rozzo e insolito per i più fini cittadini, ma anche i
fianchi ampi e forti delle contadine rispetto alle donne di città. Così pare
che venissero derise ed apostrofate come “fiericulone”
o “fieruculone”, sia per la
partecipazione alla fiera che per l’essere “colone”, cioè contadine, e/o
“culone”, dalle floride mele.
Da
fieruculona derivò “rificolona” che
ancora oggi si usa mentre si canta “ … ona,
ona, ona ma che bella rificolona … ”,
immortalata anche ne “L’acqua cheta” del commediografo Augusto Novelli, scritta nel 1908 esclusivamente in
fiorentino.
Certamente venne usata anche la rete fluviale che già ai tempi di
Raffaello era via di transito da tempo immemorabile ed un “luogo per far teatro “ per tutti con piattaforme galleggianti.
Certamente chi arrivava così “faceva teatro” agli occhi dei residenti e negli
anni ’50 del secolo appena finito, fu ripresa questa tradizione pure sull’Arno,
da Bellariva alla Pescaia di San Niccolò. L’edizione fluviale certamente resta
nella memoria dei fiorentini e dei turisti settembrini, magari stupiti per i
lanci delle fette di cocomero o di cerbottana su queste artistiche e fragili
“rificolone” che si incendiavano. Ma è un gioco, un rompere per darsi un altro appuntamento alla fine dell’estate o
all’inizio dei profumi di autunno, quando gli ultimi cocomeri e i primi
verdini, le prime uve, le noci nuove stanno insieme nella fruttiera di campagna
come di città.
Questa festa la dice lunga sul senso stesso
della vita coi suoi contrasti città-campagna, con l’estro artistico per
dedicarsi alla costruzione di un oggetto bello e fragile destinato comunque a
non dover sopravvivere, perché ogni anno doveva essere nuovo e più bello, col
suo deridere il diverso da me, sempre
e comunque, il venuto al mondo perché
“ … io ne rida, lo de-
rida … “ per poi
stupirsi che
“ … ci
sta … “ a farsi deridere a patto
“ … che
tu ci stia … “ a comprare alla fiera quel cacio o quella
schiacciata con l’uva al prezzo rincarato per i lazzi subiti.
Lorella
Rotondi