Andare
per castelli a ragionar “ … di noi e di
loro … “
Ne “IL GIORNALE DEL CUOCO” del 19 luglio
scorso, esce un interessante pezzo dal titolo “Firenze in cucina, tradizione
che rischia di andare perduta” di Eliseo Guidetti, Lino Amantini e
Nicola Dolfi.
Gli autori rimpiangono il tempo perduto,
quando questa città poteva, a ragione, vantare eccellenze artigianali e una
serietà di produzione tipica che poco, se non addirittura nulla, aveva a che
fare con il voler compiacere il turista, se non mostrandosi in un'identità
custodita senza “assalti” e reali “sabotaggi” esterni. “Noi, s'era noi, gli
altri erano loro”: non è difficile sentirsi dire così ancora da qualche
buon oste di valico come pure nel cuore di Firenze, sempre che non abbia ceduto
il fondo a un kebab o ad un fast food. Come dare torto agli autori poi, quando
dicono che gli Istituti Professionali Alberghieri difettano di ore di
laboratorio necessarie alla trasmissibilità di un mestiere tanto importante
come la cucina e l'enogastronomia? Ci trova meno d'accordo quando si dice: “ … che molti cuochi hanno nostalgia del percorso alla
scuola alberghiera, con 26 ore la settimana di pratica in cui, oltre alle basi,
si insegnava proprio la cucina tipica toscana. Adesso, più
che di formazione professionale, si tratta di un parcheggio per giovani che si
ritrovano all’interno di un istituto parificato agli altri, non all’interno di
una scuola professionale. A nulla valgono gli stage dei ristoranti se a scuola
non si danno gli strumenti di base agli alunni”.
Il punto è che bisogna darli
ugualmente: fare il doppio, anche il triplo con un terzo del tempo. Il problema
è piuttosto questo. Inoltre, si aprono i ragazzi alle altre culture, “quelle
loro” per intenderci, poiché le migrazioni col picco degli anni ottanta fino a
oggi, ha reso Firenze, al pari di altre località europee, una città
multietnica. Ma è solo conoscendo profondamente le proprie radici che ci si può
aprire alla comprensione e al dialogo con l'altro. Questo è quanto avvenne, a
esempio, all'indomani della scoperta delle Americhe. Entrarono tanti prodotti loro,
ma rimanemmo noi. Marc Bloch ci consigliava “ … di non confondere la ghianda con la quercia”. Se io napoletano,
insomma, e torniamo alla cucina, ho in mano il pomodoro americano , ma ne
faccio la pomarola, ho solo arricchito la mia cultura ed emancipato i
maccheroni dalle foglie con cui li condivo prima: nessuno pensa
all'America mangiando lo spaghetto al pomodoro. Alla stessa stregua se il
crostino nero fiorentino anziché sul pane, distendo il paté di fegatelli,
milza, capperi, acciuga ... su un pezzettino di polenta, nessuno parla di “ rivoluzione americana nella cucina fiorentina”, anzi! E’ l'America attratta
e subalterna, resa funzionale, alla storica cucina italiana. Potremmo andare
avanti per ore, ma qui mi fermo e passo a dire come una classe II^
dell'Alberghiero “Saffi” si rechi in un Castello del Chianti, quello di
Verrazzano, a cercare di capire e carpire l'eco, ma anche il segno, di
tradizioni dure a morire.
Le cantine sono il fiore
all'occhiello della antica dimora del grande navigatore Giovanni da Verrazzano
che risalì l' Hudson sino alla baia dell'attuale N. Y. per la bandiera francese
di Francesco I°. Al castello, le cucine sono sempre aperte, non c'è un orario
del pranzo, inconcepibile per noi. Ma è giusto che i visitatori possano essere
accolti al meglio e che si vada incontro alle loro esigenze di spostamento.
Però la cucina è rigorosamente toscana: le pappardelle al sugo di cinghiale
cacciato nei boschi di proprietà, l'arrosto girato, il tagliere coi salumi e
formaggi locali, pane di grani antichi cotto e lievitato semplicemente
all'antica, vin santo di produzione propria e cantucci fatti nelle cucine del castello
secondo l’antica e culturale tradizione locale. Sul tavolo, olio extravergine
d'oliva sempre del castello e “spezie del Chianti”. Tradizione rispettata dalla
filiera corta, anzi cortissima, ma con una gestione accogliente che vuole
andare incontro ai numerosi visitatori americani con cui corre un gemellaggio, ai
francesi, coreani, giapponesi, etc. Del resto, se dopo una certa ora sono
aperti solo kebab e ristoranti cinesi, di che ci lamentiamo? Personalmente,
parto sempre sapendo già dove andare a mangiare. Mi preoccupa più dell'albergo.
Mangiare è un atto intimo, serio e di grande
fiducia, in quanto è entrare in dialogo con un aspetto ampio della cultura del
territorio. I visitatori seri sono preparati e cercano Firenze in tavola, se
sono a Firenze e NON si lasciano distogliere dal “butta dentro” all'americana.
Basta questa visita al Castello, pur con la
spiegazione del titolare, dell'enologo Prof. Blasi, del Prof. di cucina Violi,
dell'esperta di comunicazione enogastronomica Maria Luisa Bruschetini, a
sopperire alle 26 ore di laboratorio che non ci sono più? No davvero. Appena
appena bastano a far comprendere, forse, che oggi si accoglie diversamente, si
educano i palati al “nostro” e se questo merita, è probabile che lascino il “
loro”. Il 17% del vino esportato al mondo è ancora italiano. Le nuove leggi
europee rendono la vita difficile al nostro olio extravergine e al migliore in
genere, più della mosca assassina. Ma è pur vero che non si aspettano la
qualità a basso costo i buoni turisti e che dobbiamo offrire la nostra identità
e la nostra onestà. Se c'è bisogno di un microchip in grado di registrare la “vita”
di ogni bottiglia per cinque anni (luce, inclinazione, tappo, temperatura, ...
inventati da due italiani, Mattia e Antonio, domenica 18 dicembre 2016 cfr. RAI
3 ilpostogiusto@rai.it), vorrà dire che il trasporto di questa merce
preziosa va ancora tutelata e che l'acquirente non si fa specie del ricarico “a
bottiglia”. Il problema non sta in altri che “aprono”e mettono in campo la loro
cultura, la loro identità: sta in noi che non abbiamo mai creato un'identità
nazionale, ma ci siamo arroccati in quella regionale o , addirittura, del
proprio orticello, pensando che il prestigio si mantenesse da sé, nonostante i
tempi volgessero in altre direttrici.
Non serve a nulla un pensiero negativo. La
comunicazione deve essere sempre positiva. La cucina italiana deve aver cura di sé: partire dalla
difesa della terra, dei territori, della genuinità del prodotto. Deve
accogliere con sicurezza nelle proprie competenze e far lavorare i giovani
perché le acquisiscano. Se i tempi sono duri, e lo sono, non va perso tempo a
ricordarcelo a vicenda: si devono incanalare energie costruttive.
Tessere reti è importante:
vendere già nei paesi di provenienza, la sosta nel locale, flessibilità negli
orari, saper trattare lo straniero, il turista, col garbo che merita perché sia
a suo agio, ma percepisca piacevolmente di essere a Firenze o nel Chianti o a
Venezia.
Proviamo a non deludere,
proviamo ad apprendere veramente l'inglese e a farlo apprendere ai giovani, a
offrire un servizio che dovrebbe andare dall'aeroporto, al soggiorno, alle
soste d'arte e culinarie e allo shopping del made in Italy.
Andare per castelli a ragionare
di noi e di loro può essere molto utile. Ricordando, magari, che
al tempo del castello stesso, già tanta storia della nostra città era stata
scritta. Ce lo ricorda pure il nostro Battistero: la formella dei commerci e
del vino, il telaio ... le arti.
Credo che solo gli Italiani
conoscano l'arte di vivere tanto profondamente. Dobbiamo tornare a coniugarla
ai valori e alla fatica. Dobbiamo sacrificare degli onesti e competenti alla
politica. Dobbiamo deciderci a considerare i reati, … reati!
La scoperta dell'America non ci
ha portato nessuna rivoluzione né in cucina, bene!, né in democrazia, male! Il brand
italiano ha ancora molto da dare e da dire poiché vanno superati certi
schemi. Bisogna comprendere che lo storico, il giornalista, la televisione,
fanno parte di una rete che può rivelarsi forte e positiva.
di Lorella Rotondi