La parola è cibo, cibo
è parola
Uno non può pensare
bene, amare bene, dormire bene, se non ha mangiato bene.
- Virginia Woolf -
Forse fu
Lessing a dire “ … che la vita
è troppo breve per mangiare e bere male … ”
Stefano De Michele lo
cita anonimamente in un bell'articolo dell'agosto 2012: “ A tavola con Dostoèvskij. Il bel
mangiare ci salverà ”.
Come Oscar Farinetti,
patron di Eataly, ha trasformato i quattro piani dell’Ostiense in un paradiso
del cibo, nientemeno che “un orgasmo enogastronomico”. Orgasmo a parte,
il cibo è indiscutibilmente al centro di molte arti: cinema, pittura, scultura,
edilizia, architettura e letteratura. Cultura e business perché, come ci ha insegnato l’EXPO'
di Milano, il “cibo è
vita”, e come ci dice M.
Caparròs, anche la sua mancanza, la fame, è business.
A noi qui interessa
vedere il nesso tra parola e cibo che non solo si accomunano per l'oralità, il topos di riferimento iniziale, almeno,
ma vogliamo dimostrare che per entrambi occorrono “buon gusto”, innanzitutto, e
una “buona digestione”: altrimenti niente piacere e niente assimilazione.
Questo
spiega perché molti leggono libri senza capirne un solo rigo e molti mangiano
senza assimilare, imbottiti preventivamente da preoccupazioni
inerenti il non dover ingrassare e imbottiti di farmaci atti a impedire
l'assimilazione. Che dire, contraddizioni dei tempi moderni: leggere per non
capire, mangiare per non assimilare. Forme, dunque, di atletismi malati ed è
come scegliere di vivere una lunga vita ebete piuttosto di un'eroica, oggi,
vita consapevole facendo lo slalom tra trigliceridi, colesterolo e la
felicità. Avete mai notato, poi, che chi segue rigide alimentazioni basate su
forti astinenze sono persone piene di astio, livore direi, verso chi mangia con
gioia? E' nata una forma nuova di invidia che farebbe rigirare nella tomba i
nostri padri e di cui parla il buon Enzo Bianchi nel suo libro “ Il pane di ieri ”.
Simonetta
Agnello Horby, conosciuta anni fa all’ormai già trentennale prestigioso Premio
Chianti, con Maria Rosario Lazzati ha scritto un raffinato testo dal titolo “ La cucina del buon gusto” il quale esprime tutto il glamour di una signora di tradizioni siciliane
accanto all'altra sua cittadinanza londinese ricca di humor. Doti, indubbiamente, non
acquistabili se non attraverso l'esercizio costante dell'intelligenza di cui si
può essere dotati, oppure no. Ma questa non è certo una rivelazione, bensì una
pura constatazione, di cui gli idioti tornano a stupirsi costantemente: che
mangino male? Chissà!
Il 13
maggio 2016, a pag. 35 de Il
Corriere della Sera, si apprende che “
… per apprezzare ancor di più menù letterari
bisogna immaginare che a leggerlo sia, ad alta voce, l’autrice del libriccino,
Céline Girard”. Parigina,
classe 1980, laureata a Firenze in letteratura italiana e dotata di una
«interminabile» erre moscia, come ha raccontato Silvia Columbano, editor della
casa editrice Franco Cesati e curatrice della collana Ciliegie, capace di
ingentilire, trasformare in seta qualunque parola. «Desideravo che leggere
menù letterari fosse come quella sera a cena, ha
detto la Columbano, in cui Céline mi aveva parlato di Hemingway, di
letteratura, di viaggi, di cucina: frammenti di racconto, vita, libri, cibo,
pensieri, luoghi i cui fili si confondessero, si mescolassero facendo venire
voglia di leggere a chi non è un appassionato di libri; a chi cucina, di
preparare un menù diverso in cui gli ingredienti principali fossero prima le
parole, e poi i piatti. E che a tutti venisse una gran fame»”.
Dunque benvenuto a
questo nuovo libro di cucina letteraria che va a infoltire la foresta
intricata, tra erbe buone ed erbe amare, uscito il 19 maggio, dell'editoria enogastronomica.
Invece un
giovane allievo dell'istituto alberghiero dove insegno, Federico, ottimo in
cucina e anche discreto intellettuale, che sta per affrontare l'esame di stato,
mi auguro con buon successo, si è incuriosito di Dostoèvskij e il cibo. Eppure sono così presi a
parlare i suoi personaggi e Dostoevskij a pensare parole, poiché queste sono
l'archetipo della cultura e il grande autore russo ne è buon padre forgiatore,
che non li immaginiamo intenti al consumo di pasti. Invece, mi dice Federico
che si è ben documentato, questa pratica avviene e con una liturgia
significativa, ancora una volta legando parola
e cibo.
Le testimonianze di
parenti e amici sulle abitudini culinarie dello scrittore sono raccontate nel
libro di Pavel Fokin, “ Dostoèvskij senza lustro ”,
e ci mostrano un uomo goloso e dal palato eccentrico.
Al
risveglio, pane e vodka, a pranzo piatti popolari a quel tempo a Pietroburgo: “ … moskovskaya solyanka, una godereccia zuppa piuttosto
grassa fatta con brodo, salsiccia tagliata a pezzetti, cavolo e cetrioli in
salamoia, le scaloppine di vitello, filetto di vitello in crosta; rasstegai,
pantagruelico pasticcio
al forno con un’apertura superiore con diversi tipi di ripieni e vari timballi
vegetariani farciti di piselli, rape, funghi in salamoia e altro ancora”.
Cos'altro ancora? Se
era di buon umore, il nostro Fedor preferiva alimenti come formaggio, noci,
arance, limone, funghi sanguinelli, caviale e senape. Prima di farvi venire
l’acquolina in bocca, sappiate che dovrete accompagnare il pollo bollito con
del latte caldo e prima del dessert sarete costretti a bere un bicchierino di
cognac per favorire la digestione. Ma se il Maestro era preso dallo spleen, anche l'alimentazione cambiava: una tazza di brodo, scaloppine di vitello,
tea e vino. Beveva nel pomeriggio tea nero molto forte con due zollette di
zucchero, secondo un lungo e un tantino nevrotico rituale. Oltre al tea nero,
fra un pasto e l’altro frutti di bosco, datteri, noci, uvetta, marmellata,
prugne reali e perfino uva fresca.
Ricordiamo che il cibo e la parola sono fonte di potere. In quasi sei secoli,
la scrittura ha dimostrato di essere strumento di potere politico-culturale, il
più importante nelle mani della chiesa ieri e delle grandi testate oggi, rette
dalla sfera politica proprio come il cibo-energia e vita. La scrittura, la
parola, cura, così il cibo: questo pensavano Anton Cechov e Mario Tobino,
Ronald Laing e Oliver Sacks.
Il cibo e la scrittura
possono pacificare, essere strumento di pace. Lo pensavano Tolstòj e Gandhi.
Quindi la scrittura e
la parola, come il cibo, sono strumento e meta per la presa di coscienza delle
aporie della realtà: scienza-letteratura, malattia-salute, pace-guerra,
religione, se osservata, o ateismo, non osservante, assimilazione-impermeabilità,
cura-incuria e potremmo andare avanti all'infinito, forse …
Moravia
termina la sua vita dedicandole l'ultimo decennio alla lotta contro il nucleare
e gli servì a colmare un vuoto d'azione “politica”. Certamente un luogo della
parola e della lotta attraverso la scrittura, ma qui il cibo si perde: davvero?
E chi mangerebbe, consapevolmente, il sushi contaminato dall'ultimo disastro
nucleare in Giappone?
Bene,
dunque, come Moravia vogliamo dedicarci nei prossimi decenni a parlare bene,
scrivere meglio e a mangiare egregiamente, partendo da aria-terra-acqua degni
di trasformarsi in cibo.
Buona vita ai nostri
lettori.
Lorella Rotondi